"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

venerdì 15 novembre 2013

CORSA AGLI ARMAMENTI (ATOMICI) IN MEDIO ORIENTE: L’ARABIA SAUDITA MOSTRA I MUSCOLI

Autore: Angelo Paulon


A volte, si fatica a comprendere con quale criterio i media scelgano le notizie da mettere in risalto. Si è parlato per settimane intere, fino alla nausea, dello spionaggio americano (e britannico) a danno dei paesi occidentali alleati e amici. Dalla Francia si sono levate voci irritate e offese; la Germania ha convocato gli ambasciatori USA e GB, e paventato di rivedere gli accordi commerciali tra Europa e Stati Uniti. Grande preoccupazione anche in Italia: la nostra privacy sarebbe a forte rischio, a causa di queste intercettazioni illegali. Eppure, anche i bambini sanno che una delle principali attività dei servizi segreti di ogni paese è spiare, e che da che mondo è mondo tutti spiano tutti. Quindi, non si sa se stupirsi più per le reazioni di certe cancellerie, o per l’enfasi data dai media a certe “non notizie”. Soprattutto se confrontiamo questa enfasi con il fatto che altri, ben più significativi avvenimenti, passano quasi inosservati. Ci riferiamo in modo particolare al comportamento recente di un attore non certo irrilevante sulla scena internazionale: l’Arabia Saudita.

Il regno dei Saud ha rinunciato, con una scelta finora senza precedenti, a occupare uno dei 10 seggi a rotazione nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Normalmente, c’è grande competizione tra i vari paesi per avere il privilegio e l’opportunità di sedersi, per due anni, allo stesso tavolo dei 5 membri permanenti (USA, Gran Bretagna, Russia, Cina e Francia) per discutere le “issues” di più grande rilevanza per la sicurezza internazionale. Ebbene l’Arabia Saudita non soltanto ha rinunciato al seggio, ma ha anche pesantemente criticato le Nazioni Unite, accusandole di comportarsi secondo standard molto diversi a seconda delle questioni sul tappeto e asserendo che una riforma dell’ONU sia ormai improcrastinabile. “Work mechanisms and double-standards on the Security Council prevent it from carrying out its duties and assuming its responsibilities in keeping world peace”, ha affermato in una nota il Ministero degli Esteri saudita. ”Therefore Saudi Arabia... has no other option but to turn down Security Council membership until it is reformed […]”. In modo specifico, i sauditi hanno accusato la comunità internazionale di aver fallito nel caso del conflitto in Siria, avendo tra l’altro consentito al regime di Assad di massacrare la propria popolazione tramite le armi chimiche senza imporre alcuna sanzione o alcun deterrente; di non essere riuscita a trovare ancora una soluzione alla questione palestinese che si trascina da 65 anni; e di non essere riuscita nemmeno a evitare la proliferazione di armamenti, anche nucleari, in Medio Oriente.


Questa notizia fa il paio con un’altra, ben più allarmante: l’Arabia Saudita sarebbe pronta a ricevere dal Pakistan armi atomiche. I sauditi hanno infatti copiosamente finanziato il programma nucleare pakistano: si tratterebbe “solo” di farsi consegnare le armi dall’unico paese islamico finora dotato di bomba atomica. La notizia arriva dalla BBC, che cita fonti di intelligence NATO nonché l’ex capo dell’intelligence militare di Israele, Amos Yadlin. Yadlin afferma che,  se l’Iran si doterà di armi nucleari, i sauditi non aspetteranno neanche un mese: poiché hanno già pagato per la loro bomba, semplicemente andranno in Pakistan a prendere ciò di cui hanno bisogno (“the Saudis will not wait one month. They already paid for the bomb, they will go to Pakistan and bring what they need to bring”). Ed è impossibile non tornare con la memoria al luglio scorso, quando la stampa britannica rese pubbliche alcune immagini satellitari secondo cui nella base saudita di Al-Watah, circa 125 miglia a sud-ovest di Riyadh, sarebbero state completate rampe di lancio per missili balistici (DF3 di produzione cinese, con portata di 1.500–2.500 miglia) con obiettivi Israele e l’Iran. Secondo esperti dell’IHS Jane’s Intelligence Review (una società di intelligence privata specializzata in sicurezza militare e nazionale) i sauditi starebbero aggiornando i missili per renderli più precisi e, soprattutto, in grado di trasportare testate nucleari. L’Arabia Saudita è in possesso, si ritiene, anche di missili CSS-2.


Questo spiegamento di muscoli da parte di Riyadh ha evidentemente due destinatari principali. Il primo, ovviamente, è l’Iran: i sauditi vogliono far sapere al regime degli ayatollah, loro nemico storico, che non gli permetteranno certo di poter diventare, grazie all’arma atomica, la superpotenza regionale in grado di dettare legge nell’intero Medio Oriente. Anzi, l’influenza iraniana sull’Iraq, in Siria e, tramite Hezbollah, in Libano è già assai dura da digerire per il regno dei Saud. L’accelerazione di Riyadh può anche essere letta come l’aver raggiunto il convincimento che i negoziati tra Stati Uniti, Russia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Iran non porteranno a nulla di buono. Nel senso che, probabilmente, non riusciranno a fermare il programma nucleare di Teheran, ormai non così lontano dal successo. Posizione nella sostanza condivisa da Israele: Netanyahu ha più volte pubblicamente affermato che l’accordo che andava profilandosi prima della sospensione dei colloqui era pessimo e pericoloso, dato che lascerebbe intatte le capacità di arricchimento nucleare degli ayatollah.


Il secondo destinatario dei messaggi sauditi è, invece, l’America. Con la quale le relazioni si sono raffreddate, poiché ci sono molti punti in agenda sui quali Riyadh si trova su posizioni diverse da Washington. In primis la Siria: i sauditi vorrebbero Assad fuori dai giochi, e conseguentemente la diminuzione dell’influenza iraniana sul paese. L’Arabia Saudita non cela la sua frustrazione per i mancati progressi sul campo, nonché per il rifiuto degli USA di un attacco militare (seppur limitato) contro l’esercito regolare siriano. In secondo luogo, i sauditi sono rimasti molto sorpresi di quanto velocemente, nel 2011, gli USA abbiano “abbandonato” Mubarak e, con lui, un regime ad essi alleato per decenni. Più che ovvio che si siano chiesti “Farebbero lo stesso con noi, nell’eventualità di una rivolta simile a Riyadh?”. In terzo luogo, vi è un aspetto a lungo termine ma non meno significativo. I sauditi sono ben consci del fatto che gli USA diventeranno, nei prossimi decenni, autosufficienti nella produzione di energia grazie allo “shale oil” (idrocarburi estratti dalle rocce con tecniche di frantumazione). Questo porterà inevitabilmente a una diminuzione di interesse strategico per l’area del Golfo; se a questo aggiungiamo la tanto reclamizzata nuova politica estera USA, basata sul “pivot to Asia”, comprendiamo come i sauditi possano guardare con una certa preoccupazione a un futuro nel quale la presenza militare dell’alleato americano nell’area non sarà più così massiccia.


A tutto vantaggio dell’Iran. E qui arriviamo al quarto e, al momento, più importante motivo di contrasto tra Riyadh e Washington. Sin dalla rivoluzione khomeinista del 1979, le relazioni tra i sauditi e l’Iran sono improntate a un confronto serrato e senza esclusione di colpi per il ruolo di potenza dominante in Medio Oriente. È un conflitto che ha, per ora, un campo di battaglia concreto sul suolo siriano: le due potenze sostengono apertamente gli schieramenti rivali (l’Iran fornisce armi e combattenti al regime di Assad, l’Arabia garantisce imponenti finanziamenti e forniture di armi ai ribelli). I sauditi sono talmente nemici di Teheran (non si dimentichi la combinazione di fattori etnico-religiosi: arabi sunniti contro persiani sciiti) da far fronte comune anche con l’odiato Israele in funzione anti-iraniana. Sebbene ufficialmente l’Arabia Saudita non riconosca lo Stato ebraico e non abbia con esso relazioni diplomatiche ufficiali, dietro le quinte i due paesi mantengono aperto un canale di comunicazione come strumento volto a promuovere la stabilità della regione. Stabilità messa seriamente a rischio dall’Iran, direttamente con il programma nucleare, e indirettamente tramite il sostegno alle popolazioni sciite in Iraq, Bahrein, nello Yemen, e il supporto a Hezbollah.


Nessuno di questi punti di disaccordo darà luogo alla fine dell’alleanza tra USA e Arabia Saudita. Almeno, non nel breve periodo. Certo è che tutti questi sommovimenti fanno capire la vera natura della posta in gioco: i futuri assetti geopolitici nell’area del Golfo. I sauditi sanno che gli americani hanno un disperato bisogno di qualche successo diplomatico nell’area (molto difficile il negoziato israelo-palestinese, qualche spiraglio in più potrebbe aprirsi con l’Iran); sono perciò sicuramente disposti a tollerare qualche concessione agli ayatollah da parte del loro alleato. Ma Riyadh sa anche che il Medio Oriente è ancora troppo importante per gli USA perché questi possano allentare troppo la pressione sull’Iran: di sicuro, non tollereranno un’egemonia militare di Teheran che possa aggiungersi alla marcata influenza iraniana sulle molte minoranze sciite diffuse in tutta la regione. Nonostante il supporto americano, però, è chiaro che i sauditi hanno avvertito la necessità muoversi più attivamente anche in prima persona. Il futuro assetto geopolitico nel Golfo dipende da come gli attori si comportano oggi: Riyadh non ha fatto altro che muovere alcune delle sue pedine, in modo da non dover dipendere troppo dal suo alleato storico.


Rimane però sospesa un’altra questione. Era prevedibile che l’aver consentito all’Iran di sviluppare il suo programma nucleare sino a questo punto avrebbe determinato una corsa agli armamenti atomici in tutto il Medio Oriente. È dunque egualmente prevedibile che le potenze nucleari esistenti siano interessate a vendere la loro tecnologia ai potenziali acquirenti. Con tempestività invidiabile, giovedì scorso una delegazione di alti funzionari russi si è recata in visita al Cairo, con la prospettiva di firmare un accordo per forniture militari del valore di 2 miliardi di dollari. Tra una riunione a l’altra, che si sia trovato il tempo di sondare il terreno in merito? Forse sì, forse no; ma sarebbe da sciocchi pensare che Putin, in questo scenario così fluido, non abbia fiutato la possibilità di un inserimento in grande stile dell’orso russo nell’area…


Fonti:
http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-24580767
http://www.israele.net/sauditi-pronti-a-ricevere-dal-pakistan-le-atomiche-di-cui-hanno-finanziato-la-produzione
http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-24823846
http://www.rightsreporter.org/missili-sauditi-puntati-su-israele/
http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/saudiarabia/10172463/Saudi-Arabia-targeting-Iran-and-Israel-with-ballistic-missiles.html
http://www.janes.com/article/24321/saudi-ballistic-missile-site-revealed
http://www.stratfor.com/sample/analysis/reality-reported-saudi-pakistani-nuclear-cooperation
http://www.formiche.net/2013/11/11/ecco-i-veri-motivi-del-negoziato-usa-iran/
http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-24944325

giovedì 7 novembre 2013

SE QUESTO E' UN UOMO...

Autore: Emiliano Bonatti


Si sentiva decisamente la mancanza, tra le "perle" di autocommiserazione del pregiudicato Berlusconi, di un qualsivoglia riferimento all'Olocausto. Ed ecco che dall'ex premier arriva, per non farci mancare nulla, una delle uscite più disgustose di una carriera già costellata di boutades di infimo livello. Nell'ormai consueta e terribile presentazione di un libro di Bruno Vespa esce l'agghiacciante frase: "i miei figli dicono di sentirsi come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler." Ho pensato, da subito, di aver capito male, di aver letto male. Lo speravo, pensando che anche un losco figuro come Berlusconi potesse avere un limite, quantomeno quello imposto dalla decenza. E invece no, era proprio così. Una bella famigliola di ricconi, di ragazzi che amministrano società, che viaggiano su elicotteri, protetti dalle scorte e dal paradiso dorato garantito dal padre, paragonata alle famiglie ebree perseguitate dal regime nazista!! Spero che i figli del buon Silvio abbiano il coraggio di prendere le distanze da una simile vergognosa dichiarazione. Cosa possono avere in comune loro, con i milioni di "figli" dell'Olocausto? Cosa può avvicinare la loro storia a quella di chi ha subito il male assoluto della Shoah? Cosa può mai avvicinare Barbara o Marina Berlusconi ad Anna Frank? Assolutamente nulla, se non l'ormai conclamata follia di un pluri-indagato che tenta in ogni modo di accreditarsi agli occhi dell'opinione pubblica come il più perseguitato degli italiani. Nulla, se non l'acclamarsi della peggiore stortura che il berlusconismo ha portato nella società italiana: la distruzione del rispetto. Il rispetto delle regole, il rispetto degli altri e, in questo atroce caso, il rispetto della storia, della memoria e della vita. Il rispetto, semplicemente, non esiste più.

Il soggetto, come da prassi, ha subito giocato la carta della "manipolazione" e della "polemica strumentale", come se la frase l'avesse detta un passante e fosse stata a lui attribuita da qualche giornalista comunista. Altrettanto veloce è stata la levata di scudi dei suoi accoliti che accusano il resto del mondo di avercela con quel pover'uomo. Anche i suoi fedelissimi, però, in questo caso avrebbero dovuto avere quantomeno la decenza di tacere. Quella frase è un insulto alla memoria dell'umanità intera. Alla memoria di quegli uomini e quelle donne che, come diceva Primo Levi, nei lager cessavano di essere uomini e diventavano, per mano di altri uomini, semplici "numeri",  "animali" da utilizzare come forza lavoro o, semplicemente, da sterminare. Questa, caro Silvio, non è tollerabile.

Immagino già le obiezioni di qualcuno che sosterrà come ogni frase di Berlusconi venga utilizzata per attacchi politici volti alla sua uscita di scena. Mi permetto di contestare preventivamente che in questo contesto la faida politica non entri minimamente. Un personaggio pubblico non può esternare le proprie opinioni come se fosse un qualunque cittadino seduto al bar davanti ad un caffè. Le storture del '900 sono un patrimonio comune dell'umanità e spetta proprio ai personaggi pubblici utilizzarle per evitarne l'oblio e far sì che simili abomini non si ripetano. Un ex presidente del Consiglio che prenda posizioni di un certo tipo, deve semplicemente assumersene la responsabilità. Non basta ricordare qualche "dichiarazione di amicizia" verso Israele per lavare simili scemenze.

Parafrasando Levi: "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare". Il suo capolavoro è a disposizione di tutti per ricordarsi che "questo è stato" e realizzare quanto penosa sia l'uscita di Berlusconi.


lunedì 14 ottobre 2013

IMMIGRAZIONE: LASCIAMO PARLARE I DATI.

Autore: Emiliano Bonatti


Esiste in Italia, da sempre, l'atroce vizio di legiferare sull'onda di qualche evento traumatico e delle conseguenti vibrazioni emozionali. Non esiste, nel nostro paese, la capacità di dar vita a iter legislativi che seguano un processo razionale di definizione della situazione di partenza, di un obiettivo preciso e dei mezzi a disposizione per conseguirlo. La situazione italiana si avvicina a quello che, nello studio delle Politiche Pubbliche, viene definito come "bidone della spazzatura", ovvero quel metodo in cui una serie di attori interviene in un processo caotico e scarsamente definito, e l'improvvisazione dettata da interessi elettorali porta alla definizione di politiche ambigue e spesso totalmente inefficaci. 

Mai come nei giorni delle tragedie del mare la politica italiana riesce a dar miglior sfoggio di questa totale incapacità di rispondere razionalmente a problemi di una gravità e profondità inaudite. E allora ecco che esce il completo spettro delle posizioni: si chiede l'abolizione della Bossi-Fini, si reclama lo Jus-soli come soluzione miracolosa ai movimenti migratori, si attende ansiosamente la posizione del Papa, si richiama l'Unione Europea a maggiori responsabilità, si invitano i migranti a non partire, si accusa Malta di non collaborare e si arriva addirittura alle uscite disgustose e animalesche di chi "esulta" di fronte alle stragi e crea i giochini per pc in stile "affonda il barcone". 

Credo che spesso, per ottenere qualche risultato, basti agire con semplicità. Per indirizzare il confronto (e l'opinione pubblica) sui binari della sobrietà basterebbe che qualcuno si degnasse di partire da qualcosa di inconfutabile: i numeri. Lo stesso dovrebbe fare qualsiasi partito che voglia realmente proporsi come serio governante di un paese allo sfascio. E' ovvio, però, che sia molto più comodo mantenere la confusione delle polemiche gratuite, piuttosto che affrontare la tematica partendo da dati certi e non contestabili. Frontex, l'agenzia europea che cura la cooperazione nella gestione delle frontiere esterne all'UE, pubblica diversi studi da cui basterebbe attingere qualche preziosa informazione circa le direzioni e le criticità dei flussi migratori. In questo modo si potrebbe quantomeno sgombrare il campo da qualche leggenda metropolitana di troppo e partire da un confronto politico serio tra le varie forze.

La prima, e forse la più grande, delle leggende da sfatare è quella che vede in quei migranti che arrivano su sgangherati barconi alla deriva il fronte dell'invasione d'Europa da parte dei clandestini. Frontex sottolinea a caratteri cubitali come "most of those who currently reside in the EU illegally, originally entered in possession of valid travel documents and a visa whose validity period they have since overstayed". Pare dunque che la maggior parte dei clandestini arrivi comodamente in aereo, nave o auto, non certo rischiando la vita in mare.

Un'altra grande bufala perorata da qualche venditore di fumo nostrano è quella secondo cui le coste italiane siano ormai il principale canale di "sfondamento" delle barriere UE per i migranti di ogni origine. I dati smentiscono anche questo:

E' facile notare come, nel 2012, il 51% dell'immigrazione irregolare (37.224 persone) sia passato attraverso le frontiere della cosidetta "Eastern Mediterranean route" quindi attraverso Grecia, Bulgaria e Cipro. L'Italia, sommando le due rotte che la coinvolgono, raggiunge un 22% (15.151 persone).

Altro dato interessante è quello che riguarda il trend dell'immigrazione clandestina negli ultimi anni. Il 2012 ha visto una diminuzione totale del 49% rispetto al 2011, anno in cui secondo alcuni le "primavere arabe" avrebbero dovuto portare milioni e milioni di profughi verso l'Italia. In effetti il picco c'è stato, ma il numero di attraversamenti nel totale dei confini UE s'è fermato a 141.051 unità, contro le 72.437 del successivo 2012.

Questi dati non negano che esista un enorme problema che riguarda i flussi migratori verso il vecchio continente e che l'Italia debba ricevere dall'Unione Europea tutto l'aiuto che serve. Occorre però che, dati alla mano, il confronto tra le forze politiche e le istituzioni nazionali ed europee avvenga al netto della propaganda. Il rischio, in caso contrario, è quello più volte ribadito di dare ulteriore fiato alle fazioni europee di estrema destra che sull'argomento stanno costruendo ampi consensi. E' fortemente sintomatico della situazione, ad esempio, che Marine Le Pen, con la retorica del nazionalismo inneggiante ad una nuova "grandeur" francese, sia data in testa ai sondaggi in vista delle future presidenziali di uno dei principali paesi europei.

Partiamo, dunque, dai numeri e cerchiamo di mettere a fuoco quali siano i reali problemi relativi all'immigrazione. Ogni forza politica inizi da qui, senza pregiudizi, a proporre le soluzioni migliori che garantiscano l'accoglienza dei poveri disperati e che garantiscano la dovuta fermezza con i delinquenti. Senza una base di valori e certezze comuni, ogni dibattito ed ogni soluzione saranno sterili e senza risultato.





venerdì 27 settembre 2013

VIENI AVANTI CRETINO...


Autore: Emiliano Bonatti



Ogni giorno, da decenni a questa parte, abbiamo pensato che la politica italiana avesse raggiunto il punto più basso tra quelli umanamente concepibili, sperando che dal giorno seguente si potesse iniziare finalmente un percorso di recupero non della "buona politica" (utopia irraggiungibile nel belpaese), ma della semplice decenza. I fieri scudieri pidiellini sono riusciti, invece, nel complicatissimo obiettivo di abbassare ulteriormente l'asticella del limite. La penosa sceneggiata di ieri dei senatori berlusconiani che minacciano e firmano dimissioni in bianco per accompagnare il proprio leader nella battaglia contro tutto e contro tutti sono un insulto, oltre che alla decenza, ai milioni di italiani onesti chiamati ad affrontare ogni giorno una crisi che li sta mettendo in ginocchio.

Siamo al servilismo patologico di un'accozzaglia di "miracolati" disposti a tutto pur di genuflettersi al capo, ben consci che quel capo li ha creati e li distruggerà sull'altare della propria salvezza. Una mandria di servi che rovescia in maniera indegna l'interpretazione dei fondamenti normativi delle istituzioni democratiche, ad uso e consumo di una verità che deve piegarsi alle esigenze del messia, e non al governo della convivenza civile. Gridano al golpe, al conflitto istituzionale, alla persecuzione, insultando un Capo dello Stato che si permette semplicemente di fare il proprio mestiere, quello di Garante della Costituzione, solo perchè alza la voce per ricordare a tutti che in uno Stato di Diritto le sentenze della Magistratura (oltretutto declinate in ogni grado di giudizio possibile) semplicemente "si rispettano". La verità, appunto, nel loro starnazzare inizia a sbiadirsi fino a diventare, agli occhi dei poco preparati, l'esatto contrario di quello che è: i reali eversori si trasformano in paladini del diritto, i reali soldatini alla caccia del golpe istituzionale diventano i salvatori della Democrazia.

I "paladini della libertà" saranno disposti a bloccare il Parlamento per mesi (viste le abominevoli procedure delle Camere per accettare eventuali dimissioni e procedere alla surroga con i non-eletti) per permettere al loro capo di mantenere il cappello dell'immunità fino a data da destinarsi, visto che sul soggetto che grida alla persecuzione pendono ancora diversi processi. Tutto questo alla faccia della situazione del Paese. Tanto, cosa volete che interessi a personaggi come Brunetta, Cicchitto, o la pitonessa Santanchè se le manovre lacrime e sangue fatte finora verranno buttate nel cestino. La crisi, per i soldatini arricchiti, è una semplice brezza che sfiora la pelle. Cosa volete che cambi, per loro, un punto percentuale di Iva, un debito pubblico gonfiato dallo spread che si alza, qualche migliaio di aziende in più che chiude. La priorità, ad oggi, è salvare il padrone, facendo a gara per dimostrare chi è il più agguerrito della banda.

Speriamo che il Pd agisca finalmente da partito dotato di spina dorsale rispondendo a muso duro alle minacce che da settimane logorano il Governo di Enrico Letta. Se vorrà fermare l'emorragia da disaffezione dei propri militanti, che alla luce degli ultimi sviluppi comprendono sempre meno la necessità e il senso del governare assieme a certi figuri, il Partito Democratico dovrà arrivare al punto, se necessario, di buttare a mare le larghe intese. Chiedere dunque una verifica di Governo immediata e fiducia da portare in Parlamento per far scoprire definitivamente le carte a Berlusconi e ai suoi. Se il Pdl (o è già Forza Italia? a che punto sono?) staccherà la spina all'esecutivo se ne assumerà le responsabilità e starà al Pd stesso tentare di dar vita ad un mini-governo di scopo (con durata e obiettivi definiti) con il Movimento 5 Stelle il quale dovrà essere chiamato, finalmente, ad un gesto di responsabilità che viene chiesto a gran voce anche da una parte del proprio elettorato. Se l'intransigenza resterà allora che si torni al voto., nulla è peggio di questo continuo stillicidio ad-personam.

A quel punto, però, l'appello andrà rivolto agli italiani. O almeno a quegli italiani che ancora non si sono resi conto dell'abbraccio mortale al quale Berlusconi ha legato l'Italia. A chi ancora non si rende conto dei danni della politica legata al mito di un leader. A quelli che non si sono ancora resi conto che non regge più la favoletta del bello, bravo e onesto che lotta contro gli altri, semplicemente mossi dalla gelosia. A chi non si rende conto che gli "altri" non sono gelosi, ma semplici cittadini onesti che non sopportano l'arroganza e il tentativo continuo di elevare un singolo al di sopra di tutti. Che non sopportano l'idea che la disonestà diventi il modello di costruzione di una società. E se anche queste ultime vicende non riusciranno ad aprire gli occhi dei cittadini, credo che per l'Italia ci siano ben poche speranze.

E allora ci ritroveremo nuovamente con la fila dei servetti e con il capo che urla: "....vieni avanti cretino... tocca a te firmare!"




sabato 21 settembre 2013

DOMESTIC TROUBLES

Autore: Emiliano Bonatti



Il sito statunitense del Guardian, nell'edizione di ieri, riporta una news alquanto agghiacciante: nel gennaio del 1961 gli Stati Uniti sono stati vicinissimi all'auto-infliggersi un attacco nucleare di immane portata. La notizia non regala certo novità nel novero dei potenziali incidenti, veri o presunti, di cui è ricca la storia della Guerra Fredda. Questa volta, però, il report proviene da documenti ufficiali, finalmente "declassified", raccolti dal giornalista Eric Schlosser durante la preparazione del suo libro Command and Control, dedicato alla corsa agli armamenti nucleari.

Il 23 gennaio del 1961 un bombardiere B-52, partito dalla base dell'Us Air Force di Goldsboro (Nord Carolina) per un volo di routine, perde a causa di un improvviso cedimento strutturale il proprio carico di 2 bombe all'idrogeno classe "Mark 39" dal potere esplosivo di 4 megatoni. Un simile potenziale avrebbe portato ad un "fallout" radioattivo tale da coinvolgere diverse tra le principali città dell'est degli Stati Uniti come Washington, Baltimora, Filadelfia e New York.  Una delle due bombe cadde in un campo vicino alla località di Faro, senza però toccare terra a causa del paracadute impigliato nei rami di un albero. La seconda bomba, invece, arrivò in un prato non molto lontano dal luogo di caduta della prima. Il meccanismo di innesco della bomba aveva già iniziato il proprio percorso e solo grazie al funzionamento di un piccolo sistema di controllo a basso voltaggio è stato evitato il disastro. Il problema, secondo alcuni esperti, è che solo uno dei 4 meccanismi di sicurezza deputati ad evitare esplosioni involontarie ha funzionato correttamente lasciando seri dubbi su quanto sostenuto dalle autorità americane in quegli anni circa l'assoluta sicurezza per i propri cittadini rispetto all'arsenale nucleare a disposizione del Pentagono.

Le polemiche si stanno ovviamente concentrando sulla questione specifica, con lo scontro tra i sostenitori della tesi dei rischi catastrofici a cui sono stati sottoposti i cittadini americani e chi invece sostiene che i meccanismi di lancio e di innesco delle bombe nucleari fossero talmente complessi da poter escludere con certezza ogni rischio per la popolazione all'interno dei confini degli States. Il sottoscritto non ha, ovviamente, la preparazione tecnica adatta per sposare una delle due tesi. E' però abbastanza ironico rendersi conto che il popolo statunitense, terrorizzato in quegli anni da possibili invasioni o lanci di testate atomiche russe, angosciato nell'ottobre dell'anno successivo da uno degli episodi di maggior tensione di tutta la Guerra Fredda (la crisi dei missili a Cuba - 1962), non si rendesse conto che i rischi maggiori per la propria sicurezza provenissero da eventuali incidenti "domestici".

L'equilibrio di potenza, al di là dei ciclici picchi di tensione, garantiva una situazione per cui nessuno dei capi di Stato delle due parti sarebbe mai stato così folle da premere un grilletto che avrebbe portato alla distruzione del globo. Gli eventi, dunque, erano tendenzialmente controllabili tramite la diplomazia o l'esibizione della forza potenziale da mettere in campo. 

Un "incidente", invece, sarebbe stato decisamente meno controllabile...    


venerdì 6 settembre 2013

CAMBIO DELLA GUARDIA A CANBERRA, SENZA SCOSSONI IN POLITICA ESTERA

Autore: Angelo Paulon


Mentre in Europa si attende con crescente interesse il 22 settembre, data delle elezioni in Germania, agli antipodi il giorno del giudizio popolare è ormai alle porte. Sabato 7 settembre, infatti, gli australiani si recheranno alle urne per scegliere il prossimo Primo Ministro. I principali contendenti sono il premier uscente, il laburista Kevin Rudd, e il leader dell’opposizione e del Liberal Party, Tony Abbott. Tutti i sondaggi danno per molto probabile il cambio al vertice a Canberra: la Coalizione dei conservatori guidata dai liberali è data al 53-54%, con un margine di 7-8 punti percentuali sul Labor. Ciò significherebbe, stando alle proiezioni, aggiudicarsi circa 90 dei 150 seggi della House of Representatives: un’ampia maggioranza. Sui laburisti pesa sicuramente come un macigno la guerra fratricida interna al partito: Rudd è ridiventato premier nel giugno di quest’anno, dopo che una resa dei conti in seno al Labor ha di fatto sfiduciato l’allora Primo Ministro Julia Gillard. La quale, a sua volta, divenne leader del partito e premier nel 2010, allorquando il Labor riservò medesimo trattamento a Rudd.

Gli elettori hanno dato segno di non apprezzare affatto questa faida tra i laburisti, che ha portato per la seconda volta in pochi anni alla premiership un leader non passando per la via maestra delle elezioni (cosa che, nel mondo anglosassone, è poco apprezzata). Nemmeno alcune gaffe dell’ultimo minuto, come una discussa intervista rilasciata da Abbott all’Australian Broadcasting Corporation il 2 settembre e finita sotto il fuoco di fila delle critiche a causa di alcune osservazioni piuttosto superficiali in politica estera (Abbott ha descritto la guerra civile in Siria come un conflitto di “baddies versus baddies”, cattivi contro cattivi, offrendo il fianco a Rudd che ha avuto gioco facile a invitare gli australiani a non votare per chi non pare essere in grado di giudicare su questioni complesse quali guerra e pace o la sicurezza nazionale), sembrano poter influenzare il risultato del voto. Quindi, a meno di clamorosi colpi di scena, Canberra si appresta ad avere un nuovo Primo Ministro e una nuova maggioranza.

Quali effetti avrà questo cambio al vertice sulla politica estera australiana? Prevedibilmente, non molti, dato che in materia di Foreign Policy si registra una sostanziale convergenza di fondo (anche se, naturalmente, con alcuni distinguo) tra liberali e laburisti. Prova ne sia che gli argomenti chiave sui quali i contendenti si sono affrontati in campagna elettorale sono stati di tipo economico (lo scontro è stato forte sul contenimento della spesa pubblica, sulla carbon tax e sulla tassa di estrazione mineraria. Abbott ha addirittura definito le elezioni come un referendum sulla carbon tax, che i conservatori vogliono abolire), sociale (tema  molto dibattuto è stato quello del salario garantito per le donne in congedo di maternità) o hanno riguardato una issue molto sentita com’è quella dell’immigrazione clandestina e dei richiedenti asilo. Anche su questo tema, peraltro, vanno sottolineate posizioni non troppo dissimili. Se i liberali hanno assicurato di fermare le imbarcazioni di disperati che arrivano dall’Indonesia, utilizzando se necessario anche la Marina Militare per impedire l’ingresso dei barconi nelle acque territoriali australiane, i laburisti hanno comunque promesso un’inversione di tendenza. Durante il suo primo mandato da premier dal 2007 al 2010 Rudd aveva incrementato le quote di immigrazione consentite, in particolare dai paesi asiatici; in campagna elettorale ha invece annunciato che i clandestini in arrivo via nave saranno inviati nei centri di prima accoglienza appositamente allestiti nelle vicine nazioni insulari del Pacifico (in primis Papua Nuova Guinea e Nauru), con nessuna chance di entrare in Australia. Una mossa che, evidentemente dettata dalla necessità di attrarre il voto degli elettori sensibili a questo tema, ha d’altra parte insoddisfatto numerosi gruppi e organizzazioni che tutelano i diritti umani dei richiedenti asilo.

Kevin Rudd è, sul piano personale, senz’altro più ferrato e ha maggiore esperienza di Tony Abbott in materia di politica estera. Parla fluentemente il mandarino e abbraccia, come tutto il Labor, una visione multilaterale delle relazioni internazionali. Uno dei recenti maggiori successi dell’Australia in politica estera è stato l’essersi garantita un seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Mossa, però, non supportata né particolarmente apprezzata dai liberali. Tanto che Abbott ha fatto sapere che, se eletto, potrebbe anche non partecipare alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine settembre, qualora esigenze di politica interna lo richiedessero. E in effetti il focus dei conservatori pare essere molto pragmatico e votato a una maggiore corrispondenza tra relazioni bilaterali e accordi di libero scambio. Julie Bishop, probabile Ministro degli Esteri in un eventuale gabinetto a guida liberale, ha dichiarato che per la coalizione conservatrice "foreign policy will be trade policy; trade policy will be foreign policy". Abbott ha affermato che, in caso di vittoria, il suo primo viaggio all’estero sarà in Indonesia, da lui definita, in virtù delle sue dimensioni, della vicinanza geografica e del suo potenziale in via di sviluppo, come “nel complesso il paese più importante per l’Australia” (dal punto di vista geopolitico, l’Indonesia costituisce infatti una barriera difensiva naturale per l’Australia sia nella dimensione marittima, che in quella aerea. Non a caso, il Trattato di Lombok del 2006 sancisce una forte collaborazione tra i due paesi per quanto concerne difesa, intelligence e antiterrorismo. Potrebbe semmai stupire lo scarso ruolo dell’Indonesia quale partner commerciale australiano: è solo al tredicesimo posto nell’apposita classifica). Successivamente, Abbott vorrebbe recarsi in Cina, Giappone e Corea del Sud e soltanto in seguito a Washington o Londra.

Ma al di là delle ovvie schermaglie da campagna elettorale, le posizioni delle due coalizioni sono, in politica estera, piuttosto vicine. E d’altra parte alcuni fatti sono evidenti di per se stessi: chiunque vinca le elezioni, si troverà a dover gestire la politica estera e di sicurezza dell’Australia in un ambiente geopolitico ed economico che gli sviluppi recenti hanno reso più complesso e difficoltoso rispetto al passato. L’apparentemente inarrestabile ascesa, non solo economica, della Cina ha fatto sì che già dal 2009 il gigante asiatico sia il primo partner commerciale dell’Australia, con scambi che superano abbondantemente i 100 miliardi di dollari l’anno. Grazie al ruolo di principale fornitore di materie prime quali minerali ferrosi, carbone, petrolio e lana grezza, l’Australia ha tratto grande giovamento dallo sviluppo industriale di Cina e India. E ciò le ha consentito di assurgere allo status di attore primario nella regione del Pacifico. E che l’Australia guardi con sempre maggiore interesse all’Asia come al proprio ambiente geopolitico di riferimento è espressamente testimoniato dal Libro Bianco, pubblicato nell’ottobre del 2012 e finalizzato a porre le basi della crescita socio-economica del paese sino al 2025. In tale documento è stata apertamente manifestata la volontà di investire nei legami commerciali, culturali e diplomatici con tutti i partner asiatici dell’Australia, nella prospettiva di permettere al paese di sfruttare appieno le possibilità offerte dal “secolo asiatico”. E come dar torto agli australiani, considerando che l’Asia è di gran lunga il continente col quale il paese dei canguri ha il più importante interscambio commerciale? Il totale di esportazioni e importazioni da e per l’Australia vede infatti il continente asiatico nella sua globalità primeggiare, nel 2012, con la cifra di 393 miliardi di dollari, +7,5% rispetto al 2008 (per fare un confronto, quattro volte tanto rispetto all’Europa, che si attesta a 96 miliardi). Di questi quasi 400 miliardi di dollari, 130 riguardano gli scambi con la Cina, 74 con il Giappone, 33 con la Corea del Sud e 27 con Singapore, rispettivamente primo, secondo, quarto e quinto partner commerciale dell’Australia. Gli USA sono il secondo partner, con 58 miliardi di dollari di interscambio; dunque, a enorme distanza dalla Cina. 

L’apertura alla Cina, fortemente caldeggiata da Rudd già quand’era Ministro degli Esteri prima di diventare premier, si è concretizzata anche sul piano diplomatico attraverso l’uscita australiana, nel 2007, dalla cosiddetta Iniziativa Quadrilaterale. Condivisa con Giappone, India e USA, essa puntava a riorganizzare il sistema di alleanze tra potenze nell’area Asia-Pacifico, in funzione (neanche troppo implicitamente) di contenimento della potenza cinese.

Chiunque vinca le elezioni del 7 settembre, per l’Australia si apre (o meglio, si è già aperta nei fatti) una stagione molto impegnativa. Da un lato, la Cina è ormai di gran lunga il principale partner commerciale del paese, e promette di esserlo per molti anni ancora. Dall’altro, si tratta di uno dei principali competitors del proprio più grande alleato strategico, gli Stati Uniti. Che di certo non ignorano le implicazioni geopolitiche della vicinanza sino-australiana. Secondo Michael Fullilove del Lowy Institute, una think-tank indipendente con sede a Sydney, questa situazione porta con sé enormi sfide (“This will pose immense challenges in the future”) per la classe dirigente di Canberra. Sia tra i laburisti che tra le fila del partito liberale non manca la fiducia: molti sono convinti che per l’Australia sia possibile bilanciare la tradizionale relazione strategica e militare con gli USA con la necessità di non rinunciare al traino della Cina e allo sviluppo economico a questo connesso. Va rimarcato, infatti, come l’Australia sia stato l’unico paese occidentale a non risentire della crisi economica internazionale; anzi, la sua crescita prosegue costantemente. Secondo alcuni analisti, invece, l’Australia si trova a un bivio. Gabriele Abbondanza, esperto italo-australiano di geopolitica e autore di ““La geopolitica dell’Australia nel nuovo millennio” sostiene in un recente articolo su notiziegeopolitiche.net che l’alternativa è tra “la possibilità di dare una svolta ai rapporti con gli Stati Uniti, con uno sforzo per continuare ad essere l’interlocutore principale di USA e Nazioni Unite nel sud-est asiatico” e “la possibilità di completare lo spostamento dell’asse economico […] verso l’Asia, unendo un progetto di avvicinamento politico che potrebbe portare […] alla costituzione di una grande area di paesi con trattati di libero scambio e rapporti politici privilegiati”. Dunque, sembrerebbe non esistere una terza alternativa alle due sfere d’influenza: “Quello che […] è certo, è che l’Australia è vicina al momento in cui dovrà decidere da che parte sta il suo futuro”.

Vi è comunque un punto fermo da non sottovalutare. L’Australia, nonostante l’avvicinamento alla Cina e l’uscita dall’Iniziativa Quadrilaterale, non ha comunque raffreddato i suoi rapporti con gli USA. Dai quali, dopotutto, né i laburisti né tantomeno i conservatori hanno alcun interesse eccessivo a distanziarsi, data la natura del legame tra i due paesi. Strategicamente e in materia di difesa e sicurezza, l’Australia dipende in maniera sostanziale dagli Stati Uniti, suoi principali fornitori di armamenti e assistenza militare. A partire dal 2000, gli USA hanno fornito oltre il 53% del totale degli armamenti acquistati dagli “aussie”; nell’anno 2012, la percentuale è stata addirittura del 71% (dati SIPRI). Inoltre, gli americani sono fisicamente presenti sul territorio australiano tramite un contingente di marines a Darwin, nel Northern Territory. Contingente che incrementerà dagli attuali 250 soldati per arrivare a 1.000 unità entro il 2014, e a 2.200 uomini a pieno regime nel prossimo futuro. E, soprattutto, non può essere dimenticato che il rafforzamento della partnership con gli USA si colloca in maniera perfettamente coerente all’interno delle nuove linee strategiche volte all’intensificazione della presenza americana nell’area del Pacifico (il famoso “Pivot to Asia” di Obama del 2012).

L’Australia ha previsto un importante sviluppo della propria forza bellica nei prossimi anni, sia orientato in senso difensivo, sia finalizzato a incrementare le proprie capacità di condurre operazioni lontano dalla madrepatria. Il Libro Bianco per la difesa del 2009 “Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030” prevede investimenti fino al 2030 per l’acquisto, tra gli altri, di aerei da guerra e missili a lunga gittata, la formazione di forze speciali, il miglioramento quantitativo e qualitativo dell’equipaggiamento. Le spese militari per la Marina, l’Esercito, l’Aeronautica e l’intelligence aumenteranno di più di 5,4 miliardi di dollari solo tra quest’anno e il 2016. Il governo di Canberra ha stimato che, per finanziare un programma così ambizioso, spenderà il 3% del PIL fino al 2017, per poi attestarsi al 2,2% fino al 2030. Questo rafforzamento della potenza militare australiana va letto in chiave strategica: le tensioni tra le maggiori potenze dell’area potrebbero radicalizzarsi in un futuro non troppo lontano e non si può escludere il rischio di un confronto diretto (il riferimento è prioritariamente, ma non esclusivamente, alla crescita della potenza militare cinese). L’interesse basilare di Canberra coincide ovviamente con la stabilità e la sicurezza dell’intera regione limitrofa: Papua Nuova Guinea, Timor Est, Vanuatu, ma soprattutto l’Indonesia. In caso di conflitti interni o dell’avvento di un regime autoritario in questo paese, infatti, la minaccia per l’Australia aumenterebbe esponenzialmente.

Il combinato disposto delle cifre di cui sopra ci fa capire come, in realtà, la vicinanza tra Australia e USA sia decisamente palese. Pochi indicatori testimoniano dell’alleanza tra stati come la collaborazione in materia di difesa e sicurezza. Un così massiccio rafforzamento bellico non può prescindere da una fattiva cooperazione e assistenza da parte degli Stati Uniti. L’interesse dei due paesi nell’area Asia-Pacifico è d’altra parte, pur con qualche differenza, sostanzialmente il medesimo: un’area stabile e pacifica; un rapporto con la Cina basato sì sulla crescita dell’interscambio commerciale (quello tra Washington e Pechino attualmente si aggira sui 400 miliardi di dollari l’anno), ma anche sulla necessità che l’ascesa militare cinese non assuma dimensioni incontrollabili. In questo senso, un aspetto cruciale della strategia americana consiste nel consolidare la sua rete di alleanze nella regione. Quella con l’Australia, da sempre considerata centrale, è stata rafforzata con gli accordi di Perth del 2012, che hanno stabilito la riallocazione di un sistema radar americano C-Band da un struttura della Air Force ad Antigua all’Australia occidentale. Inoltre, le due parti stanno portando avanti colloqui per l’installazione di droni a lungo raggio sulle isole Cocos, un territorio australiano nell’Oceano Indiano.

Per concludere: se davvero l’Australia deve decidere da che parte sta il suo futuro parrebbe che, tutto sommato, un orientamento di fondo sia già piuttosto chiaro. Al netto di Libri Bianchi e slogan elettorali, basta forse dare un’occhiata attenta alla bandiera australiana per capire come le radici anglosassoni e un certo background culturale e valoriale, nonostante i mutanti e variabili scenari economici, politici, demografici, strategici e militari, possono difficilmente venire estirpati. Siamo ormai pienamente entrati nel “secolo asiatico”: aspettiamoci ancora per molti anni un’Australia vivace, aperta, florida e dinamica; sicuramente pronta a cogliere tutte le occasioni di crescita che derivano dalla relativa prossimità a paesi in notevole sviluppo economico, dalle smisurate ricchezze naturali del proprio sottosuolo e dal suo ruolo sempre più rilevante nell’area Asia-Pacifico. Al tempo stesso, però, aspettiamoci anche un’Australia, dal punto di vista strategico e militare, saldamente ancorata all’Occidente.


Fonti:

http://www.theguardian.com/world/australia-election-2013-interactive
http://www.todayonline.com/world/austrailian-contender-tony-abbott-sparks-foreign-policy-furor
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23898663
“Defining Down Under”, Time Magazine del 19/08/2013, pp.18-23
http://www.todayonline.com/world/abbott-vows-asia-first-policy-if-elected-pm#inside
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23840061
http://www.treccani.it/enciclopedia/australia_res-25c6fc01-a825-11e2-9d1b-00271042e8d9_(Atlante_Geopolitico)/
http://www.notiziegeopolitiche.net/?p=26849
http://asiancentury.dpmc.gov.au/
http://www.sipri.org/research/armaments/transfers/databases/armstransfers
http://breakingdefense.com/2013/07/11/us-marine-force-in-darwin-australia-boosts-to-1000-next-year-boost-to-meu-force-proceeds/
http://www.news.com.au/money/federal-budget/budget-2013-defence-spending-up-as-military-grows/story-fn84fgcm-1226642483169
http://www.geopolitica-rivista.org/21540/il-focus-usa-dallatlantico-allasia-pacifico-la-cina-nel-mirino/

martedì 3 settembre 2013

MR. PRESIDENT, LE SUE LINEE ROSSE, PERCEZIONE DI DEBOLEZZA E RISCHI DI SOTTOVALUTAZIONE

Autore: Angelo Paulon


Mai come in questi giorni Obama sembrava essere all’angolo. Senza il sostegno dello storico alleato britannico, il cui Parlamento ha votato contro l’intervento armato in Siria; incalzato e quasi deriso da Putin che, sprezzante, invitava il già premio Nobel per la pace a pensare alle future vittime della sua eventuale azione militare; sbeffeggiato persino da Assad che rilasciava interviste a grandi giornali occidentali sottolineando come non abbia fornito le prove dell’attacco con armi chimiche del 21 agosto scorso. Proprio in un momento così difficile, Obama sembra aver segnato oggi il primo punto a suo favore: i principali leader repubblicani del Congresso (lo Speaker John Boehner e il leader di maggioranza alla Camera, Eric Cantor) hanno dichiarato il loro sostegno all’intervento militare richiesto dal presidente. Boehner ha sostenuto che è necessario rispondere all’attacco con armi chimiche in Siria e solo gli Stati Uniti hanno la capacità di fermare Assad. Pare quindi che la frenetica attività di lobbying operata dagli uomini più fidati di Obama abbia avuto i primi risultati, mentre fino a ieri il voto del Congresso appariva tutt’altro che scontato. 

Cerchiamo di approfondire la questione. In cosa consiste il vero problema di Obama? Nel non aver ancora attaccato la Siria? Ovviamente no: anzi, allo stato delle cose il non intervento potrebbe anche essere visto come una saggia decisione. Quando si tratta di scegliere tra due mali, si sceglie solitamente quello minore, sul momento o in prospettiva. Ma quando non si è in grado di comprendere quale dei due sia peggiore dell’altro, può avere senso restare fuori dai giochi. In Siria il conflitto è tra un regime spaventoso, che ha massacrato decine di migliaia di persone, e un’opposizione frammentata e poco coesa, ma tutt’altro che esente dall’aver perpetrato stragi e violenze d’ogni genere. Il video circolato per qualche giorno su Youtube, nel quale un combattente dell’opposizione addentava in favore di telecamera il cuore di un lealista dopo averlo ucciso e letteralmente squartato, testimonia l’orrore di cui entrambe le parti sono responsabili. Insomma, nella guerra civile siriana è molto difficile individuare i “buoni”. E in effetti, nessuno tra gli alleati occidentali degli USA è convinto che rovesciare il regime alawita, consegnando di fatto il paese agli islamisti e all’anarchia, sia poi una buona idea. Quindi, il non attacco di per se stesso è parte secondaria degli affanni del presidente USA, considerando anche l’eventualità che il conflitto sfugga dal controllo delle parti e si tramuti in un confronto su scala più ampia.

Parliamo allora della famosa linea rossa dell’utilizzo delle armi chimiche. Circa un anno fa Obama affermò che l’uso di tali armi da parte del regime siriano contro la propria popolazione sarebbe stato inammissibile e avrebbe portato a conseguenze molto dure per Assad. Ebbene, anche se ancora non è stata mostrata al mondo la “pistola fumante”, che il regime abbia fatto ricorso ad agenti chimici parrebbe assodato. Le conseguenze, però, non si sono ancora viste (è anzi possibile che, se anche ci saranno, si tratterà di qualcosa di più simile a un ceffone che a una punizione esemplare. Ceffone dopo il quale Assad sarà probabilmente libero di continuare a usare buona parte della potenza del suo esercito contro i ribelli). Di fronte a questo massacro di donne e bambini, avvenuto utilizzando strumenti così orribili, ci si potrebbe allora chiedere cosa aspettino gli USA, il gendarme del mondo, a fare qualcosa. L’avanzato mondo libero occidentale non può tollerare questo crimine contro l’umanità, che andrebbe punito adeguatamente! Ci si potrebbe e dovrebbe porre, però, anche molte altre domande. Forse scomode. Prima di tutto, che differenza c’è tra le decine di migliaia di morti di questi due anni e quelli del famigerato attacco chimico del 21 agosto? La morte che arriva per mezzo di colpi d’artiglieria, granate, fucili mitragliatori ha un peso minore di quella che giunge a causa del Sarin? Solo queste ultime uccisioni sono adatte a giustificare un intervento armato? E ancora: se bisogna punire l’immoralità di sanguinosi dittatori che schiavizzano e massacrano la propria popolazione, non sarebbe forse il caso di iniziare, a puro titolo di esempio, dalla Corea del Nord? Eppure, non sembra che alcuna voce si levi alta per chiedere a Obama di attaccare Kim Jong-un e liberare il martoriato popolo nordcoreano… che pure, dopo oltre sessant’anni di sofferenze indicibili, ne avrebbe anche moralmente diritto.

E dunque, il cuore del problema del presidente americano è il non aver ancora punito l’uso delle armi chimiche da parte di Assad? Certamente no. E d’altra parte sarebbe irrealistico pensare che gli USA o chi per essi possano inviare truppe, navi o aerei in tutte le parti del pianeta dove vengono perpetrati crimini abietti contro le popolazioni civili. È inutile nascondersi dietro un dito: gli interventi militari dettati da ragioni umanitarie sono normalmente una patina della quale vengono ammantate azioni che hanno in realtà altri obiettivi, più o meno apertamente confessabili. Evidentemente, in questo caso specifico le ragioni geostrategiche statunitensi non sono tali da giustificare un intervento rapido, pieno e risoluto, né a sopportarne le eventuali conseguenze. Allo stato attuale il gioco non vale la candela, con buona pace delle vittime civili passate e future. Possiamo star certi che, se fossero stati in ballo interessi vitali degli USA, staremmo commentando ben altro tipo di decisioni da parte di Obama e una loro ben diversa tempistica; e questo, indipendentemente dalle (non) decisioni  del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Ciò che in questi giorni sta angustiando il presidente, e non potrebbe essere altrimenti, è invece la sua immagine. L’errore che gli si può imputare è di aver indicato una “linea rossa invalicabile” in maniera troppo avventata. Avrebbe dovuto essere certo di poter reagire in maniera chiara, tempestiva e adeguata qualora tale linea fosse stata superata. Cosa che è accaduta, ma Obama non ha ancora reagito. Se anche lo farà tra qualche giorno, sul piano dell’immagine sarà comunque troppo tardi. Su molti media internazionali, in varie cancellerie europee e del mondo arabo, tra i “falchi” del governo israeliano Obama è già stato irrimediabilmente bollato come un pessimo Comandante in capo. Percepito come insicuro, riluttante, poco risoluto. Privo di autorità e, il che forse è peggio, di autorevolezza.

Giudizio condivisibile o prematuro? Domanda di non facile risposta. Certamente Russia, Iran, Siria e Hezbollah sembrano uscire rafforzate da questa situazione, e ognuna ha un buon motivo per esserlo. Putin sa che un’America non in grado, fosse anche per libera scelta, di interferire in maniera decisiva negli affari mediorientali apre un vuoto di potere che la Russia può legittimamente aspirare a colmare, almeno parzialmente (già la gestione della questione egiziana da parte degli Stati Uniti ha sollevato parecchie perplessità). E considerate tutte le altre aree di contrasto con gli USA (il disarmo, i missili e i centri radar dislocati dagli americani in Polonia e Repubblica Ceca, l’accesso al petrolio e alle altre fonti di energia, …) si tratterebbe di un bel punto a favore di Putin in questa riedizione 2.0 della guerra fredda. Assad inizia a pensare che forse, contrariamente a tutte le previsioni di un anno fa, potrebbe anche riuscire a restare in sella a Damasco: e non subire grossi danni dagli USA pur avendo osato superare la famigerata linea rossa potrebbe renderlo ancor più determinato a sedare la ribellione, con ogni mezzo, e porre fine alla guerra civile da vincitore.

La partita più importante, in prospettiva, riguarda però l’Iran, lo spettatore più interessato a soppesare la reazione statunitense alle azioni di Assad. La repubblica islamica potrebbe, a detta di molti, trarre forza e sfrontatezza dalle esitazioni degli USA contro Damasco. C’è chi propone una correlazione diretta tra le oscillazioni dell’Occidente tutto sulla Siria e le probabilità che, quando arriverà il momento critico, l’appello a scontrarsi militarmente con l’Iran per impedire che diventi una potenza nucleare finisca col subire la stessa sorte. Se Obama non affronta Assad, avrà il coraggio di combattere con l’Iran, un paese ben più forte, quando questo sarà troppo vicino alla bomba atomica?

Non è il caso di correre troppo con i parallelismi. È chiaro che Obama, come qualsiasi altro presidente si trovasse al suo posto, non sarebbe certo entusiasta di doversi impegnare in una guerra contro la repubblica degli Ayatollah. Ed è sicuro che, prima di dare luce verde a qualsiasi attacco all’Iran, espleterebbe tutte le possibili soluzioni diplomatiche, nessuna esclusa. Ma altri due fattori sono altrettanto certi: da un lato, un Iran dotato dell’arma nucleare modificherebbe completamente lo scenario in Medio Oriente, destabilizzerebbe i rapporti di forza in tutta la regione, potrebbe scatenare una corsa agli armamenti nucleari da parte di altri attori. L’Occidente, e con esso i paesi sunniti del Golfo guidati dall’Arabia Saudita, hanno un interesse diretto a evitare che ciò accada. Detto in altri termini, non possono permetterlo: regalerebbero all’Iran una posizione di enorme potenza, accrescendo tra l’altro il ruolo e l’influenza dei molti gruppi terroristici a esso legati (in primis Hezbollah). Il secondo fattore ha direttamente a che fare con uno Stato che non sbandiera ai quattro venti linee rosse da non superare e non cerca disperatamente sponde tra i paesi amici: molto più pragmaticamente, quando la sua sicurezza è minacciata oltre il limite del tollerabile, agisce. È fuori discussione che, in caso di coinvolgimento diretto di Israele in qualsiasi conflitto, gli USA non potranno che schierarsi a fianco dello stato ebraico. Lo testimonia il segnale lanciato dai test missilistici congiunti israelo-americani di oggi nel Mediterraneo orientale. D’altro canto, i preparativi per l’eventuale confronto con la repubblica islamica non si sono mai fermati. A metà agosto il generale americano Martin Dempsey, presidente dello Stato Maggiore congiunto delle Forze Armate americane, ha pubblicamente affermato che le opzioni militari USA contro l’Iran sono migliori rispetto a un anno fa.

In sostanza, al momento Obama è apparso un presidente senza troppa spina dorsale, particolarmente ansioso di garantirsi il supporto preventivo a qualsiasi azione militare da parte della comunità internazionale o, in subordine, almeno del suo parlamento. Ma Russia, Siria o Iran faranno meglio a non esagerare con gli atteggiamenti strafottenti degli ultimi giorni, i quali ricordano più dei bulletti di periferia che degli stati sovrani. Un eventuale eccesso di boria e di arroganza potrebbe compattare sia il fronte interno USA sia l’Occidente al fianco di Obama, e riservare loro inaspettate, amare sorprese.


Fonti:
http://www.bbc.co.uk/news/world-middle-east-23950253
http://www.jpost.com/Defense/Israel-announces-successful-joint-missile-test-with-US-in-Med-325152
http://www.haaretz.com/news/diplomacy-and-defense/1.541704

sabato 31 agosto 2013

OMAGGIO A SEAMUS HEANEY

Autore: Rodolfo Marangotto


Ieri si è spento il grande poeta nordirlandese Séamus Heaney, premio Nobel per la letteratura nel 1995.
Cittadino onorario di Mantova; ha inaugurato l'edizione 2012 del Festivalletteratura ed è stato il primo a firmare l'appello al Presidente Napolitano per il restauro e la riapertura della Camera degli Sposi dopo il sisma dell'anno scorso. L'Accademia Virgiliana gli ha dedicato il Premio Internazionale Virgilio. A maggio di quest'anno ha tenuto una lectio magistralis agli studenti liceali di Mantova.

Il Festivalletteratura lo ricorda così: clicca.
Il video dell'evento a lui dedicato nel 2012:


Noi lo vogliamo ricordare con le sue poesie:

Crossing
Tutto scorre. Anche in un uomo solido,
pilastro di sé e del proprio mestiere,
con tanto di scarponi gialli, bastone, feltro floscio in testa,

possono spuntare le ali ai piedi e farlo lesto,
come un dio da fiera, da erma, bivio o stradone,
patrono di viandanti e psicopompo.

“Sul battello cerca uno col bastone di frassino”,
disse mio padre a sua sorella che partiva
per Londra, “stagli vicino tutta la notte

e sarai in salvo”. Che scorra, scorra pure
 il viaggio dell’anima con la sua guida,
ed i misteri di intermediari col bastone!


Il fusto di pioggia
Capovolgi il fusto e quello che succede
è una musica che non avresti sperato mai
d’udire. Lungo il secco stelo di cactus scorrono

acquazzoni, cascate, rovesci, risacche.
Ti lasci attraversare come un condotto
d’acqua, poi lo scuoti di nuovo leggermente

ed ecco un diminuendo che corre per le sue scale
come una grondaia gemente. Di seguito,
uno spruzzo di stille da foglie irrorate,

sottile umidità d’ erba e margherite;
poi mille luccichii come soffi di brezza.
Capovolgi ancora il bastone. Quel che succede

non è sminuito dall’essere accaduto una volta,
due, dieci, mille volte prima.
Che importa se tutta la musica che traspare

è un cadere di pietriccio e semi secchi lungo un fusto
di cactus! Sei come l’uomo ricco accolto in paradiso
attraverso il timpano di una goccia di pioggia. E adesso
riascolta.

venerdì 30 agosto 2013

CREDERE IN UN SOGNO

Autore: Rodolfo Marangotto

Credere in un sogno non è retorica, non è ovvietà! Credere in un sogno è impegno, è determinazione! Se il sogno è quello espresso da Martin Luther King il 28 agosto 1963 al Lincoln Memorial di Washington, crederci è un dovere!

Un dovere di tutti gli uomini per rispetto a tutti gli uomini, per rispetto verso se stessi, i propri cari e i propri figli.
Martin Luther King ha donato alla civiltà questo sogno; a noi il dovere di realizzarlo! Perché non è solo con la commemorazione dei grandi eventi che si sostengono le grandi conquiste civili, ma con la partecipazione e l'impegno nostro di tutti i giorni; solo così possiamo difendere la nostra libertà, la libertà di tutti.

A noi l'onere di salvare dall'indifferenza il sogno di uomo per gli uomini.




lunedì 26 agosto 2013

OPZIONE-KOSOVO PER LA SIRIA?

Autore: Emiliano Bonatti


Il regime siriano ha autorizzato, nella giornata di ieri, gli ispettori delle Nazioni Unite a visitare le zone teatro della strage causata la settimana scorsa nella periferia di Damasco dall'utlizzo di armi chimiche. La Reuters riporta che nella mattinata di oggi gli esperti stanno lasciando il proprio albergo per dirigersi verso il sito. Gli Stati Uniti sostengono che l'autorizzazione sia arrivata con grave ritardo in quanto le prove di un reale conivolgimento delle truppe governative potrebbero essere già state cancellate. Al contrario Assad, in un'intervista ad un giornale russo, sostiene come sia impensabile che un esercito utilizzi armi chimiche in una zona in cui i suoi stessi soldati siano impegnati, rilanciando implicitamente l'accusa nel campo dei ribelli additati dal dittatore come i veri organizzatori della strage, mossa da esigenze di mobilitazione dell'opinione pubblica internazionale sul conflitto siriano.

Da chiunque sia partito l'ordine di una simile barbarie, il risultato dell'internazionalizzazione totale della questione siriana è stato raggiunto. La guerra civile che dura ormai da più di due anni, con oltre 100.000 morti sulle spalle, era ormai finita ai margini dell'opinione pubblica mondiale: le guerre lontane, se non hanno sussulti clamorosi, finiscono lentamente nell'oblio. Ecco dunque un evento talmente grave da diventare un fondamentale spartiacque nella storia del conflitto. Per il Kosovo fù il cosidetto "massacro di Racak" a segnare il punto di non ritorno e ad obbligare "moralmente" i paesi occidentali ad intervenire contro Milosevic, in Siria potrà essere, appunto, il massacro del quartiere di Ghouta. Anche per Racak vennero ventilati dubbi su chi fosse il vero mandante, il regime serbo, infatti, accusò apertamente i ribelli dell'Uck di aver montato ad arte l'evento. Un’apposita commissione d’inchiesta internazionale escluse che si potesse realmente risalire ai colpevoli ma ormai il dado era tratto. Gli Stati Uniti e gli alleati della Nato, spinti dallo sdegno dei propri cittadini, non potevano più rifiutarsi di intervenire a dimostrazione del fatto che l'opinione pubblica, nelle democrazie occidentali, ha spesso un potere devastante rispetto all'eterno temporeggiare dei propri governanti in materia di relazioni internazionali.

La Siria di oggi ricorda molto il Kosovo di fine anni '90. Gli Stati Uniti si trovano di fronte al superamento di quella "linea rossa" che Obama aveva tracciato per il regime di Assad, ma allo stesso tempo di fronte alla totale mancanza di volontà di intervenire in un teatro che agli americani può portare solo enormi problemi. Tutti sanno, però, che in politica internazionale (e a maggior ragione in momenti di crisi) se la minaccia non è mai seguita dall'azione l'attore rischia di perdere lentamente la propria forza e la propria influenza. Molto probabilmente Obama aveva tracciato quella linea convinto che Assad non l'avrebbe mai superata, per paura di pesanti ritorsioni. Oggi questo è successo e la situazione vincola ormai pesantemente gli Stati Uniti ad un intervento forte e deciso, pena la perdita di credibilità. La Francia spinge per un intervento sul campo ma le opzioni restano, ad oggi, decisamente limitate.

Un intervento armato pienamente "legale" dal punto di vista del diritto internazionale è, attualmente, impensabille. Diritto e prassi garantiscono al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il monopolio legale dell'uso della forza a livello internazionale, rendendolo l'unico organo deputato alla legittimazione di un eventuale intervento armato. E' però ovvio che Russia e Cina porrebbero il veto a qualsiasi proposta che vada in quella direzione, rendendo impossibile qualsiasi opzione proposta da altri stati membri. Ecco dunque che prende piede l'opzione-Kosovo, ovvero l'utilizzo dell'iter che aveva portato all'intervento Nato contro il regime di Slobodan Milosevic nel marzo del 1999.

In quella situazione, nella stessa impossibilità di ottenere un pieno mandato dal Consiglio di Sicurezza (la Russia sosteneva la causa della Rep. Fed. Jugoslava guidata dalla Serbia), la Nato decise di intervenire militarmente giustificandosi con la necessità di difesa dei diritti umanitari e appoggiandosi ad interpretazioni di "implicite" autorizzazioni all'uso della forza in alcune risoluzioni del Consiglio stesso. Fiumi di inchiostro sono stati spesi per tentare di capire se l'intervento dell'Alleanza Atlantica fosse in qualche modo legittimo, oltre che "dovuto", per far cessare un conflitto che stava causando quasi un milione di profughi nel teatro kosovaro. Ragionando in termini di diritto, sia in riferimento alle norme sull'uso della forza sia a quelle del diritto bellico internazionale, l'azione armata fu assolutamente illegittima. Alcuni degli stessi Stati partecipanti ai raids, come Francia e Germania, nell’impossibilità pratica di sostenere la legalità dell’intervento, si affrettarono al termine del conflitto a sottolineare l’eccezionalità del caso e la sua inidoneità ad essere considerato come base per una futura prassi interventista al di fuori del sistema delle Nazioni Unite.

Se, dunque, questo sarà il solco da seguire per un intervento in Siria, la Nato (o chi per essa) dovrà affrontare le altrettanto legittime rimostranze del regime siriano e di eventuali alleati. La differenza profonda col Kosovo, però, risiede nel fatto che Milosevic agiva in un teatro ben più stabile dell'attuale medio-oriente (le guerre balcaniche erano appena finite e nessuna nazione aveva il minimo interesse a ripiombare in qualche conflitto) e non poteva vantare un seguito di alleanze, al di là della Russia, di un certo calibro. La Siria, invece, si trova per natura in un'area in cui una piccola miccia potrebbe incendiare un intero sub-continente e ha già trovato la sponda di alcuni alleati potenti. L'Iran, tramite il proprio ministro degli esteri, ha avvisato gli Stati Uniti segnalando come "No international license exists for military intervention in Syria. We hope that White House officials are wise enough to not enter such a dangerous battle. Statements of provocation by American military officials or actions such as sending warships do not help solve the issue and will make the region's situation more dangerous". In aggiunta, nella situazione kosovara la Nato aveva un interlocutore ben definito che rappresentava la globalità dei ribelli, l'Uck. In Siria, attualmente, esistono svariati gruppi di rivoltosi che non hanno una guida comune e il rischio è quello di far piombare la situazione siriana post-regime in un caos simile a quello libico.

La strada per la soluzione della guerra civile siriana, dunque, è in perenne salita. Il ritrovamento di prove schiaccianti da parte degli inviati dell'Onu su reali responsabilità di Assad nella mattanza di Damasco potrebbe dare una spinta notevole verso l'intervento armato, rendendolo maggiormente giustificabile anche al di fuori del sistema decisionale delle Nazioni Unite, bloccato dai veti di Russia e Cina. Di certo, legittima o meno che possa essere, un'azione armata potrebbe dar vita ad una catena di eventi che può realmente far implodere i delicatissimi equilibri su cui si regge attualmente il medio-oriente. E questo Obama lo sa benissimo.


Fonti:
www.reuters.com
Emiliano Bonatti: "Il ruolo delle Organizzazioni Internazionali nella disgregazione della Jugoslavia: genesi, sviluppo e legittimità dell'intervento Nato in Kosovo". 

mercoledì 21 agosto 2013

EUROPA, IL MOMENTO DI SCEGLIERE DA CHE PARTE STARE

Autore: Angelo Paulon



La diplomazia europea vive giorni di grande impegno. L’esplosiva situazione egiziana, unita al proseguire senza fine della guerra civile in Siria (secondo l’Osservatorio siriano dei diritti umani, violenti scontri sono in corso oggi nei pressi di Ras al-Ayn, nel nordest del paese, tra milizie curde e ribelli affiliati a fazioni qaediste), sono solo due delle molte questioni sul tappeto. Ma la contingenza del momento fa sì che proprio l’Egitto sia ora in cima alla lista delle preoccupazioni dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell'UE, Catherine Ashton.

Oggi, 21 agosto, i ministri degli Esteri dei paesi dell’UE si riuniscono a Bruxelles proprio con l’Egitto come tema unico dell’incontro. Cosa ci si può aspettare da tale riunione? Alcuni organi di stampa hanno felicemente riassunto l’obiettivo del vertice con l’espressione “condannare le violenze senza compromettere il futuro”. E in effetti, inviare un messaggio forte ma al tempo stesso costruttivo ai principali attori della crisi egiziana sembrerebbe, in linea di principio, molto saggio e lungimirante.

Peccato che la situazione sul campo, questa volta, consenta solo limitate acrobazie dialettiche. L’Egitto è ovviamente uno dei paesi chiave della regione. Dall’evolversi della crisi dipende non soltanto il suo futuro, ma quello dell’intero Medio Oriente nei prossimi decenni. Non è un caso che tutti gli attori interessati a espandere o conservare la propria influenza sull’area abbiano già chiaramente fatto la loro scelta di campo.

Da un lato il premier turco Erdogan, che ha dichiarato di ritenere Israele responsabile della destituzione del presidente Morsi, da lui considerata un colpo di stato. Erdogan è sempre stato vicino a Morsi e alle posizioni dei Fratelli Musulmani, in quanto il loro background ideologico è sostanzialmente simile. Non a caso, sia il premier turco che l’ormai ex presidente egiziano si sono distinti per politiche analoghe: le graduali purghe contro i militari (basti pensare alla condanna all’ergastolo dell’ex capo di stato maggiore turco Ilker Basbug per il suo ruolo in un presunto complotto volto a rovesciare Erdogan) o provvedimenti socio-culturali indicatori di una chiara visione islamista della società (sempre in Turchia, il ritorno all’abbigliamento islamico per le donne, bandito sin dai tempi di Ataturk; le lezioni obbligatorie di Corano nelle scuole; le restrizioni alla vendita di alcolici).
Anche l’emirato del Qatar ha sin dall’inizio della crisi condannato l’intervento dei militari egiziani. Da molto tempo il Qatar supporta i Fratelli Musulmani in Egitto (anche con aiuti finanziari, che non a caso sono aumentati esponenzialmente dopo l’elezione di Morsi alla presidenza della Repubblica), così come i loro omologhi siriani e altri movimenti affini, come Hamas nella Striscia di Gaza.

Dall’altro lato la maggior parte dei paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, sostengono invece apertamente l’azione dell’esercito egiziano. Il principe saudita Abdullah bin Abdul Aziz ha espresso già la scorsa settimana il suo pieno supporto ai militari egiziani nella loro “lotta contro il terrorismo”. Sulle stesse posizioni dei sauditi troviamo anche Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. Israele, sebbene sottotraccia, sta informando le cancellerie dei paesi occidentali che, a suo parere, un solo attore è in grado di promuovere e sostenere un governo stabile che diriga l’Egitto: l’esercito. Se lo si abbandona, il paese farà la fine della Siria o della Libia. Dunque, bisogna prima rimettere lo stato in carreggiata, e solo in un secondo momento si potrà provare a riavviare il processo democratico. Inoltre, lo stato ebraico sta cercando di convincere Obama che non appoggiare i militari egiziani nella loro azione potrebbe compromettere ulteriormente anche la già delicata situazione nel Sinai (terreno fertile per l’insediamento di terroristi islamisti) e danneggiare gli sforzi volti a far proseguire i negoziati di pace israelo-palestinesi.

In sostanza, i fronti pro e contro l’esercito del paese dei faraoni si sono già ben delineati. Dove si colloca l’Europa? 

Sembra certo che gli europei puntino a mantenere un ruolo di mediazione tra l’esercito e la fratellanza musulmana. Una posizione che tuttavia non sembra essere frutto di una chiara visione strategica, quanto piuttosto della consueta divisione tra gli stati membri. C’è infatti chi ha già autonomamente deciso di bloccare le forniture di armi ai militari (Italia e Germania) e chi da parte sua, come la Danimarca, ha sospeso l'erogazione dei finanziamenti ai progetti di sviluppo o alle istituzioni pubbliche egiziane. Altri paesi si dimostrano invece più cauti: di certo, comunque, tra le opzioni in discussione figurano il congelamento degli aiuti finanziari al Cairo e la sospensione degli accordi militari e di sicurezza.

Il problema, però, è di più ampio respiro e non riguarda soltanto il pur corposo programma di assistenza varato da Bruxelles nel novembre 2012: circa 5 miliardi di Euro per il periodo 2012-2014, destinati soprattutto a migliorare la vita quotidiana degli egiziani. La questione è prettamente geopolitica: quale ruolo vuole avere l’Europa in Egitto e nell’intero Medio Oriente? L’UE, tradizionalmente uno dei principali donatori e il maggiore partner commerciale del paese dei faraoni, desidera essere un leader e provare a gestire finalmente la situazione da protagonista, o si accontenterà di fare la comparsa adeguandosi a quanto verrà prima o poi deciso dagli USA? I quali, detto per inciso, non possono tergiversare troppo, dato che sono stati “avvisati” dai sauditi che qualsiasi decisione prendono ora avrà ripercussioni nelle loro relazioni a lungo termine col mondo arabo e musulmano.

Senza dubbio, come afferma l'inviato UE per l'Egitto, Bernardino Leon, “non c’è una soluzione facile”. Congelare gli aiuti economici, dando così un segnale forte ai militari egiziani affinché allentino la morsa sulla popolazione? In questo caso il rischio è perdere ulteriormente influenza economica e politica nella regione. Influenza, peraltro, sempre più minacciata dai paesi ricchi della regione, specialmente l’Arabia Saudita. Proprio Riad ha fatto sapere, lunedì scorso, che i Paesi arabi sono pronti a compensare ogni calo degli aiuti occidentali all’Egitto. Il che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme per USA ed Europa.

Sospendere gli aiuti militari? L’assistenza europea all’Egitto in questo campo è di 140 milioni di Euro l’anno. Briciole, se comparate al miliardo e mezzo di dollari assicurate da Washington. Dunque, un’azione solo europea avrebbe ben poco effetto. Viceversa, un’azione concordata tra USA e UE sarebbe ben più impattante. Ma si aprirebbe, in tal modo, un’autostrada per i competitors nella fornitura di armamenti: in primis la Russia, che sarebbe ben felice dell’occasione per fare cassa e, soprattutto, riposizionarsi sullo scacchiere mediorientale.

D’altro canto, dare aperto sostegno alle Forze Armate egiziane per giungere il prima possibile a una stabilizzazione del paese (come apertamente richiesto alla comunità internazionale dal Ministro degli Esteri saudita, Saud al Faysal) verrebbe interpretato come un’azione dichiaratamente ostile ai Fratelli Musulmani. Inoltre,  l’Europa presterebbe il fianco al fuoco di fila delle critiche. Non è difficile immaginare la reazione di certi ambienti intellettuali e culturali in un caso simile: come può l’UE chiudere gli occhi di fronte a quelle che, per gli standard occidentali, sono evidenti violazioni dei più elementari diritti umani? Il valore della democrazia è meno importante del mero interesse economico-politico?

E dunque, parafrasando l’ormai fuori moda Lenin, “che fare”? Per l’Europa si tratta di un dilemma che implica rischi e opportunità in pari grado. Una scelta di campo chiara, precisa e netta, qualsiasi essa sia, comporterebbe il pericolo di crearsi nuovi nemici e di riaccendere vecchie ostilità (ad esempio, a nessuno può sfuggire l’impatto sui movimenti islamisti di un’eventuale scelta di campo a favore dell’esercito egiziano e i connessi rischi per cittadini e paesi europei). Ma tale scelta porterebbe con sé anche l’opportunità di affermarsi, finalmente, come un attore che vuole (ri)acquistare quel ruolo sullo scacchiere mondiale che, in potenza, potrebbe sicuramente recitare.

C’è da scommettere che, come sempre più spesso accade, la scelta non sarà univoca. Tra distinguo, rivendicazioni di autonomia in politica estera, interessi economici e geostrategici differenti, anche stavolta probabilmente l’UE non parlerà con una voce sola (o, se lo farà, si tratterà del solito compromesso al ribasso). Dando ragione, per l’ennesima volta, a tutti coloro che sostengono che la politica estera dell’Europa, semplicemente, non esiste.

Fonti
http://english.alarabiya.net/en/News/middle-east/2013/08/16/Saudi-King-Abdullah-declares-support-of-Egypt-against-terrorism.html
http://www.cnsnews.com/news/article/saudis-warn-west-we-won-t-forget-your-stance-egypt
http://www.israele.net/messaggio-da-israele-prima-evitare-che-legitto-vada-a-pezzi-poi-pensare-alla-sua-democrazia
http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Israel-warns-US-Alienating-Egyptian-army-might-risk-peace-talks-323642