Autore: Emiliano Bonatti
L’Egitto è ormai in fiamme e sull’orlo della guerra civile,
dopo la destituzione di Morsi da parte dell’esercito avvenuta lo scorso 3
luglio. Nessun Capo di Stato, al di fuori di quelli che temono di subire ugual
sorte (vedasi Erdogan), ha osato pronunciare la parola “Golpe” in riferimento
all’azione dei militari egiziani. Peccato che, tecnicamente, quanto successo
sia l’iter tipico del colpo di stato: come altro si può definire, infatti, la
presa di potere da parte di un esercito ai danni di un potere costituito eletto
tramite regolari elezioni? Possiamo
discutere del grado di “regolarità” di queste elezioni, considerando la
delicata fase di transizione seguita al crollo del regime di Mubarak, ma non
sono mai giunte notizie di brogli che possano aver falsato l’esito delle urne.
Partendo dalla concreta definizione di quanto è stato,
occorre capire quali possano essere i futuri sviluppi della situazione. I
generali, al comando dell’unica istituzione realmente strutturata in Egitto,
pensavano di riuscire a gestire più facilmente il “ritorno di fiamma” delle
proteste dei Fratelli Musulmani. I morti degli ultimi giorni dimostrano
l’esatto contrario e sarà realmente difficile per i militari evitare
l’escalation verso la guerra civile. D’altro canto l’islam politico (più o meno
moderato) ha dimostrato un’enorme capacità di mobilitazione delle masse, tant’è
che in tutte le elezioni avvenute negli Stati protagonisti delle c.d.
“primavere arabe” i partiti di chiara estrazione religiosa hanno ottenuto ampi
successi.
E' qui, però, che nasce un problema di fondo, quasi
amletico, per i Capi di Stato occidentali. La caduta di storici regimi nello
scacchiere nord-africano e mediorientale e i tentativi di tortuose transizioni
verso la democrazia hanno portato ovunque alla vittoria di compagini
filo-islamiste, che non hanno perso l’occasione di tentare la virata verso
l’islamizzazione dello Stato provocando ulteriore instabilità in aree già altamente
volubili. E’ meglio dunque un regime dittatoriale che garantisca un minimo di
stabilità, o proto-democrazie che gettino ulteriore benzina sul fuoco?
Gli Stati Uniti, veri arbitri della politica internazionale,
sono fermi a mere dichiarazioni di
facciata che “tifano”, ovviamente, per
la rotta verso la pacificazione e la via verso nuove elezioni
democratiche. Tenendo però conto degli
interessi americani per un’area strategica come l’Egitto, minacciata dai
disordini interni e dai tentativi di
penetrazione economico-politica di Cina e Russia e calcolando che gli stessi
Stati Uniti finanziano l’esercito egiziano per circa un miliardo e mezzo di dollari
annui, difficilmente la situazione si evolverà verso scenari non graditi a
Washington.
Per il momento Obama resta alla finestra, ma con il timone
ben saldo tra le mani.
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