"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

venerdì 9 agosto 2013

KASHMIR: INDIA E PAKISTAN DI NUOVO AI FERRI CORTI. MA LA GUERRA NON È (ANCORA) IN ARRIVO.


Autore: Angelo Paulon



Lo scorso 6 agosto cinque soldati indiani sono stati uccisi in un agguato nella regione del Kashmir, lungo la frontiera indo-pachistana. Nuova Delhi ha puntato il dito contro l’eterno nemico Pakistan, sostenendo che tra i responsabili dell’eccidio vi sarebbero proprio corpi speciali dell’esercito pachistano, che avrebbero varcato il confine tra i due paesi e teso un’imboscata ai militari. Il ministro della Difesa indiano A.K. Anthony ha affermato, come riporta The Hindu, "The ambush was carried out by approximately 20 heavily armed terrorists along with persons dressed in Pakistan Army uniform", oltre a sottolineare come nulla possa avvenire sul lato pachistano della zona di confine senza che l’esercito di Islamabad lo consenta. Naturalmente, il governo del Pakistan nega ogni responsabilità: un comunicato ufficiale del Ministero degli Esteri del paese islamico bolla le accuse indiane come “baseless and unfounded allegations”.

Quello del 6 agosto, peraltro, non è certo un episodio isolato. Già l’8 gennaio altri due soldati di Nuova Delhi furono uccisi da truppe pachistane, probabilmente sconfinate in territorio indiano, durante un conflitto a fuoco. Alcuni osservatori ritengono che questa fosse la reazione pachistana a un analogo scontro, occorso a parti invertite un paio di giorni prima (sconfinamento  indiano e uccisione di un soldato pachistano). Si assistette anche allora ad analogo balletto di dichiarazioni, con cui entrambe le parti cercavano di addossare all’altra la responsabilità delle tensioni.

Tensioni, peraltro, di lunghissima durata: solo dal novembre 2003 un cessate il fuoco è in vigore sulla linea di confine tra i due paesi. Linea di confine in realtà provvisoria, dato che il territorio del Kashmir è conteso sin dal 1947, anno in cui la decolonizzazione inglese lasciò in eredità la cosiddetta Partizione, ovvero la suddivisione dell’ex colonia indiana in due stati, uno a maggioranza indù (l’Unione Indiana, appunto) e l’altro a maggioranza musulmana (il Pakistan). Lo stato indiano di Jammu e Kashmir, governato dal maharaja Hari Singh, inizialmente pareva infatti dover diventare uno stato indipendente. Poi, Singh decise di aderire all’Unione Indiana, delegando ampi poteri governativi a Nuova Delhi in cambio della sua protezione militare. Questo fatto, unito all’intricatissimo mosaico geografico ed etnico della regione (in cui vivono musulmani sunniti, tibetani in maggioranza buddisti, dogra punjabi, indù e musulmani sciiti) portò sia l’India che il Pakistan a intervenire militarmente, dando vita alla prima guerra indo-pachistana (1947-1949).

Dopo altre due guerre convenzionali (1965 e 1971), decenni di conflitti più o meno violenti e un’infinità di incidenti di confine e attacchi terroristici, la situazione attuale vede il territorio suddiviso tra India (che ne controlla la maggior parte e lo reclama interamente per sé), Pakistan (che ne occupa circa i due quinti e chiede un referendum con il quale la popolazione, in maggioranza musulmana, dovrebbe poter scegliere a quale stato appartenere) e Cina (che controlla a sua volta una piccola porzione di territorio, a sud-est del Passo Karakorum). L’India accusa il Pakistan di fornire armi e supporto ai separatisti, che compiono attacchi terroristici in territorio indiano; il Pakistan, a sua volta, accusa  l’India di violazione dei diritti umani.

Innegabilmente, entrambe le posizioni hanno un fondo di verità. Così come è vero che entrambe sono di volta in volta abilmente propagandate in modo da far apparire il nemico come colui che vuole radicalizzare lo scontro e cerca il conflitto a tutti i costi. Sta di fatto che, a seguito di questi indicenti di frontiera, i più gravi dal 2003, i due paesi sono diplomaticamente ai ferri corti come non avveniva da anni. Gli animi delle folle, soprattutto in India a seguito dell’imboscata del 6 agosto, sono piuttosto accesi. L’ira contro il Pakistan viene espressa nelle strade (vedi foto), l’effigie del primo ministro pachistano Nawaz Sharif viene data alle fiamme sia nel Kashmir indiano che nelle strade di Nuova Delhi, si chiede una risposta ferma a tutela dell’orgoglio nazionale.

Il riaccendersi dei focolai di tensione giunge, probabilmente non a caso, proprio mentre il governo indiano stava valutando alcune proposte pachistane per riprendere i colloqui tra i due paesi, interrotti dopo i già citati scontri a fuoco del gennaio scorso. Il Pakistan, dal canto suo, stava cercando di organizzare un vertice tra il primo ministro Sharif e il premier indiano, Manmohan Singh, a margine dell’assemblea generale dell’ONU che si terrà a settembre.

È evidente che la situazione molto calda di questi giorni rischia di portare a una brusca frenata, almeno temporanea, negli sforzi per i negoziati di pace. Cosa farà, concretamente, l’India? Il 2014 è un crocevia molto importante, dato che sono in programma le elezioni. Certamente il governo di Nuova Delhi non potrà mostrarsi troppo accomodante, temendo di essere punito per questo dagli elettori (ormai, sessant’anni di propaganda interna fanno sì che nessuno dei due governi possa permettersi di essere percepito dalla propria opinione pubblica come debole nei confronti del nemico storico). Già il BJP (Bharatiya Janata Party), attualmente all’opposizione, ha criticato l’esecutivo per voler proseguire il dialogo con gli inaffidabili vicini pachistani: un chiaro segnale che la campagna elettorale è già iniziata. Ma d’altra parte, Nuova Delhi dovrà necessariamente utilizzare un approccio pragmatico e improntato al dialogo. Come suggerisce un editoriale dell’Hindustan Times, “It is no surprise that the ghastly attack came as talks were being slated between the prime ministers of the two countries  […] But […] there is no getting away from engaging Pakistan. A new prime minister has made the right noises about peace […]  A new president is in place. At the moment, to be very realistic, India’s best bet is to talk to them”. India e Pakistan insomma, magari non volendolo, sono costrette a parlarsi.

Ecco allora che, seguendo l’esempio di Obama che ha annullato l’incontro bilaterale con Putin a margine del G20, la risposta indiana potrebbe essere analoga: nessun incontro coi pachistani, in attesa di tempi migliori. Magari intavolando parallelamente un nuovo round di contatti e colloqui preliminari, dietro le quinte, senza l’ingombrante ribalta dei media.

Lo stesso Pakistan non è in una condizione semplice, alle prese com’è con questioni interne assai spinose. Dai devastanti attacchi terroristici nel sud-ovest del paese, rivendicati dai talebani, di questi ultimi giorni (30 morti l’8 agosto, almeno 9 il giorno dopo), a una situazione economica interna molto problematica, alla complicato tema del Belucistan. Dove, è bene ricordarlo, il governo centrale pachistano ha riservato ai cittadini di etnia hazara di quella regione un trattamento non dissimile da quello imposto dai cinesi in Tibet, anche con l’aiuto di miliziani islamici e pashtun integralisti fatti emigrare appositamente nell’area al fine di spezzarne gli equilibri etnico-sociali. E dove le minoranze separatiste godrebbero, secondo Islamabad, di aiuti e sostegno da parte dell’India (guarda un po’!), con il non troppo malcelato scopo di destabilizzare il Pakistan. Insomma, il nuovo premier Sharif ha le sue belle gatte da pelare. Per non parlare dei conflitti settari tra sciiti e sunniti, in particolare nella zona di Quetta, e del pericolo potenziale che giunge dall’esercito e dal potentissimo servizio segreto (ISI), che costituiscono dei contro-poteri di enorme forza e autorità nel paese. Se è vero che un eventuale guerra aperta contro l’India potrebbe compattare l’opinione pubblica, è altrettanto chiaro che le sue conseguenze sarebbero non solo imprevedibili, ma anche devastanti in termini di costi e vite umane, e destabilizzanti dal punto di vista politico e strategico.

Quindi, in ultima istanza nessuno dei due contendenti ha al momento un interesse reale a far sì che le tensioni oltrepassino un tutto sommato “tollerabile” livello di guardia (con buona pace dei soldati, qualsiasi divisa indossino, e dei civili che sono entrati o entreranno a far parte della lista dei caduti).

Vi è, infine, un altro fattore di grande rilevanza che fa pensare all’idea di un nuovo conflitto come estremamente improbabile: entrambi i paesi sono potenze nucleari. L’effetto della dissuasione nucleare reciproca farà sì che, anche qualora dovessero occorrere nuovi scontri armati in Kashmir, la conseguenza non sarebbe un conflitto, per così dire, in campo aperto.  Lo dimostra l’esito della battaglia di Kargil della primavera 1999, quando i separatisti del Kashmir penetrarono in territorio indiano appoggiati dal sostegno logistico e dal fuoco di copertura dell’esercito pachistano. L’India respinse infine l’attacco; nonostante il diretto coinvolgimento di entrambi gli eserciti, la situazione non degenerò.

È assai più plausibile, invece, che il confronto indo-pachistano si sposti su altri fronti. In particolare, l’Afghanistan. Gli USA e la NATO, infatti, lasceranno il paese nel 2014. Questa prospettiva allarma non poco l’India, che ha investito moltissimo nello sviluppo dell’Afghanistan. È dello scorso luglio la notizia che molte imprese indiane nei settori dell’IT, agricoltura, industria estrattiva e logistica hanno siglato accordi con l’AISA (Afghanistan Investment Support Agency) destinati a portare nel giro di due anni il commercio indo-afghano oltre il miliardo di dollari. Non solo: in una più ampia prospettiva di sviluppo a medio termine, l’India sta contribuendo con 100 milioni di dollari al potenziamento del porto iraniano di Chabahar, che si affaccia sul Golfo dell’Oman. Il porto dovrebbe servire come hub per il transito di merci indiane verso l’Asia Centrale via Afghanistan, by- passando così il Pakistan. I tre paesi (Iran, India e Afghanistan) hanno siglato un accordo volto a garantire riduzioni tariffarie e una corsia preferenziale a tali traffici.

Se, come appare in fondo verosimile, il ritiro della NATO dovesse preludere a un ritorno dei talebani, si profilerebbe un doppio smacco per l’India. Da un lato, questi enormi investimenti rischierebbero di andare in fumo o di essere pesantemente pregiudicati. Con essi, verrebbe meno la prospettiva di importanti guadagni futuri per l’economia indiana. Dall’altro, non ci sono dubbi che l’ISI, avendo dato rifugio e protetto nel nord del Pakistan la leadership dei talebani dal 2001 a oggi, esigerà il proprio tornaconto.  L’Afghanistan potrebbe così ridiventare un fondamentale retroterra strategico per il Pakistan, in grado di assicuragli un punto a favore nella malaugurata ipotesi di un futuro conflitto con l’India.

Fonti:
http://www.thehindu.com/news/national/ambush-carried-out-by-terrorists-persons-in-pak-army-uniform-antony/article4995836.ece?homepage=true
http://mofa.gov.pk/pr-details.php?prID=1362
http://edition.cnn.com/2013/01/08/world/asia/india-pakistan-kashmir-clash/index.html
http://www.hindustantimes.com/editorial-views-on/Edits/Making-the-best-of-a-bad-deal/Article1-1105432.aspx
http://www.tolonews.com/en/afghanistan/11122-17-indian-companies-to-invest-in-afghanistan
http://www.satrapia.com/news/article/india-plans-shipping-afghan-goods-via-iran/

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