"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

lunedì 5 agosto 2013

LA RIPRESA DEI COLLOQUI DI PACE ISRAELO-PALESTINESI: TANTO RUMORE PER NULLA?

Autore: Angelo Paulon



Tonnellate di inchiostro sui giornali di tutto il mondo e migliaia di pagine web:  la ripresa dei colloqui di pace israelo-palestinesi ha avuto grande risalto sulla stampa mondiale. Quasi tutti i media hanno dato ampio spazio al primo round di colloqui, tenutisi il 30 luglio a Washington, tra il Ministro della Giustizia d’Israele, la signora Tzipi Livni, e il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat. D’altra parte, pochi argomenti catalizzano l’attenzione e l’interesse della comunità internazionale come il conflitto arabo-israeliano, nelle sue ampie e variegate sfaccettature.
Come sempre in occasione di avvenimenti così impattanti sull’opinione pubblica, però, possiamo cercare più chiavi di lettura. Desideriamo soffermarci essenzialmente su due aspetti: 1) perché i colloqui sono ripresi proprio ora, e solo ora? 2) questi incontri, il primo dei quali la stessa Livni ha peraltro definito “incoraggiante”, porteranno a qualche risultato concreto?

Andiamo con ordine. Come mai, dunque, il Segretario di Stato John Kerry (nella foto assieme a Livni ed Erekat) si è adoperato così fortemente per portare israeliani e palestinesi al tavolo delle trattative proprio adesso? La Siria è dilaniata da una sanguinosissima guerra civile, le cui conseguenze si propagano al Libano, la solita polveriera etnica e confessionale. L’Egitto pare al collasso, mentre la Turchia vive un momento di notevole instabilità interna. In Giordania, lo scorso giugno sono scoppiate delle rivolte tribali a Ma’an, il più grande governatorato del paese; filmati apparsi su Youtube (dei quali poco è trapelato sui media) mostrano truculenti scontri a fuoco tra l’esercito giordano ed esponenti delle tribù del sud. In tutto questo disordine, la situazione in Israele e nei territori palestinesi parrebbe paradossalmente una delle meno turbolente della regione. E allora, perché investire così tanti sforzi per far riprendere le complicatissime trattative tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese proprio in questo momento?
La diplomazia USA, che a inizio 2012 ha adottato nuove linee strategiche volte a privilegiare l’area Asia-Pacifico (“Pivot to Asia”), si trova nell’ultimo periodo a fronteggiare una serie di situazioni assai spinose. È sotto gli occhi di tutti che le relazioni con la Russia sono ai minimi storici dopo la dissoluzione dell’URSS; la concessione dell’asilo temporaneo a Snowden da parte di Mosca ha esacerbato ancor più i rapporti. Soprattutto, gli americani stanno ancora facendo una gran fatica a decodificare gli esiti delle “primavere arabe”, inquadrare i loro attori e comprendere un Medio Oriente dilaniato da conflitti settari e da una miseria economica crescente. Non a caso, finora Obama si è ben guardato dall’intervenire direttamente in Siria, così come in Libia gli USA hanno lasciato la luce della ribalta ai francesi e agli altri europei, rimanendo in seconda-terza fila.
Probabilmente, proprio il fatto che l’equilibrio in Medio Oriente negli ultimi tre anni si è letteralmente disintegrato rende necessario un riposizionamento della politica estera statunitense. Serviva dunque un “colpaccio” diplomatico, capace di rilanciare gli USA come mediatori e attori principali delle relazioni internazionali. Quale issue migliore del sessantennale conflitto arabo-israeliano, quindi, per riaffermare il proprio ruolo?
Al tempo stesso, i colloqui portano acqua anche al mulino delle due parti in conflitto. Israele già da qualche anno pone molta più attenzione alle relazioni esterne, cercando di migliorare la propria immagine,  compromessa da decenni in cui lo stato ebraico ha privilegiato la propria sicurezza senza preoccuparsi troppo dell’impatto fortemente negativo che le sue azioni militari e alcune delle sue politiche (la barriera difensiva, gli omicidi mirati, gli insediamenti di coloni a Gerusalemme Est e in altre aree, …) hanno avuto sulla comunità internazionale. La partecipazione ai negoziati è funzionale a un desiderio dell’opinione pubblica dello stato ebraico, ovvero normalizzare i rapporti con una comunità internazionale in gran parte contraria all’“occupazione” israeliana.
L’ANP, dal canto suo, si trova in una condizione ben più complessa. Al contrario di Israele, dove al di là del normale dibattito politico democratico si registra un sostanziale, sebbene non unanime appoggio dei cittadini alle istanze portate avanti in tema dal Governo, l’ANP deve fronteggiare una situazione interna drammaticamente frammentata dal punto di vista politico (Abu Mazen non ha nessun controllo su Gaza e anche in Cisgiordania è un presidente “in prorogatio”, visto che il suo mandato è scaduto nel 2009 e da allora non si sono mai più tenute elezioni a causa della spaccatura tra Hamas e ANP), e devastante da quello economico, sociale (basti pensare alla disoccupazione al 27%, a Gaza al 32%) e demografico. Abu Mazen, quindi, non può permettersi di irritare troppo gli USA, i quali contribuiscono in maniera determinante alla sopravvivenza delle istituzioni palestinesi (o della loro parvenza) con i loro finanziamenti. In maggio, al Forum economico Mondiale tenutosi in Giordania, Kerry ha annunciato un nuovo piano di aiuti all’economia palestinese di non meno di 4 miliardi di dollari. Ecco allora che l’ANP ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, spedendo Erekat ai colloqui di Washington.

Ma sotto la superficie della (fittizia?) volontà di giungere realmente a qualche accordo brucia la cenere di difficoltà al momento insormontabili. Ricordiamone brevemente qualcuna.
Israele non potrà mai accettare alcune tra le condizioni che i palestinesi considerano essenziali per il raggiungimento di un accordo di pace (una tra tutte, il “diritto al ritorno” in Israele dei profughi e dei loro discendenti: milioni di persone che rovescerebbero completamente il rapporto demografico tra cittadini israeliani ebrei e non ebrei). Peraltro, la storia anche recentissima insegna come Israele non abbia mai esitato troppo a porre in essere azioni anche clamorose e rischiose, se considerate necessarie per garantire la propria sicurezza. Ultima tra esse, il 5 luglio scorso, un attacco dal mare ad opera di un sottomarino della classe Dolphin della marina militare israeliana. Secondo il Sunday Times, un missile da crociera avrebbe distrutto un deposito militare siriano a Latakia. Il deposito ospitava, tra l’altro, una cinquantina di missili anti-nave Yakhont P-800 di fabbricazione russa, consegnati quest’anno alle forze armate di Damasco. Tali armi avrebbero potuto permettere a Hezbollah di minacciare direttamente gli impianti israeliani offshore di estrazione del gas naturale del Mediterraneo. Non si vede, dunque, come Israele da un lato agisca con tutti i mezzi a disposizione per difendersi e prevenire attacchi al suo territorio, e dall’altro possa acconsentire a tavolino a soluzioni che impedirebbero di preservare il carattere ebraico e democratico dello stato, equivalendo a un suicidio.
Abu Mazen, dal canto suo, non potrà mai accettare alcune delle condizioni che Netanyahu potrebbe eventualmente offrirgli (uno Stato demilitarizzato, con il controllo israeliano sul Muro Occidentale e una presenza militare israeliana sul fiume Giordano) senza essere accusato, nella migliore delle ipotesi, di tradimento della causa.
Inoltre, il fronte palestinese manca completamente di unità in relazione al processo di pace. Non solo Hamas, ma anche molte formazioni politiche “pragmatiche” disapprovano il rinnovo delle trattative con Israele: il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (Fdlp), l’Iniziativa Nazionale Palestinese di Mustafa Barghouti, il Partito del Popolo Palestinese (comunisti). Persino all'interno della sua stessa fazione Fatah, Abu Mazen non ha trovato sostegno! Si può quindi tranquillamente affermare che, in questo momento, è l’intransigenza della leadership politica palestinese, ostinatamente contraria a qualsiasi negoziato, a costituire un ostacolo alla pace semplicemente insormontabile.
Infine, non va dimenticato il più ampio scenario del mondo arabo-islamico nel suo complesso. Manca completamente una posizione comune a supporto del processo politico e negoziale. Anzi, si assiste con cadenza regolare a un susseguirsi di prese di posizione particolarmente cruente nei confronti di Israele (l’ultima in ordine di tempo, l’affermazione del neoeletto Presidente iraniano Rohani, che prima ancora di insediarsi ufficialmente ha già sentenziato che Israele è un corpo estraneo nella regione del Medio Oriente, che deve quindi essere sradicato). Un gioco al rialzo che ha probabilmente come scopo principale quello di presentarsi ai musulmani di tutto il mondo come i campioni a supporto della resistenza palestinese contro il regime sionista (lo fece anche Saddam Hussein nel 1991 durante la Guerra del Golfo, non a parole ma lanciando gli Scud su Tel Aviv) ma che nei fatti non contribuisce di certo a gettare le basi per una soluzione pacifica del conflitto. E l’esito di sessant’anni di propaganda bellicosa e di conflitti armati è uno solo: la maggior parte dell’opinione pubblica del mondo arabo-islamico non sembra affatto desiderare la convivenza tra palestinesi ed ebrei nella medesima regione, né la coesistenza pacifica di due stati indipendenti e sovrani, quanto la cancellazione tout court di Israele.

Tutte queste cose, gli americani le sanno perfettamente. È dunque evidente che, in siffatta situazione, non è realistico aspettarsi risultati clamorosi a breve termine. Gli stessi USA hanno invitato israeliani e palestinesi a dar vita a una nuova “road map” del processo di pace che dovrebbe portare a incontri e negoziati almeno per i prossimi nove mesi. Nel migliore dei casi, si addiverrà a qualche accordo su questioni secondarie o qualche dichiarazione di intenti da dare in pasto all’opinione pubblica mondiale.
Non si è forse troppo lontani dal vero, allora, se si sostiene che i grandi sforzi volti alla ripresa dei colloqui e l’enfasi con la quale essa è stata sottolineata rispondono prima di tutto a un’esigenza di Public Relations, quasi propagandistica. Ognuna delle tre parti ha bisogno di comunicare qualcosa alle proprie audience di riferimento: un’immagine positiva, propositiva, costruttiva agli alleati e al “pubblico neutrale”; un messaggio di inflessibilità, credibilità, fermezza e forza rivolto alle rispettive popolazioni e, soprattutto, ai propri nemici. Il tutto, al fine di adeguare il proprio posizionamento sul mutante scenario mediorientale e trovare una collocazione politico-diplomatica dalla quale perseguire con più efficacia i propri interessi fondamentali.

Nessun commento: