"In un regime totalitario gli idioti ottengono il potere con la violenza e gli intrighi... in una democrazia, attraverso libere elezioni..."

venerdì 6 settembre 2013

CAMBIO DELLA GUARDIA A CANBERRA, SENZA SCOSSONI IN POLITICA ESTERA

Autore: Angelo Paulon


Mentre in Europa si attende con crescente interesse il 22 settembre, data delle elezioni in Germania, agli antipodi il giorno del giudizio popolare è ormai alle porte. Sabato 7 settembre, infatti, gli australiani si recheranno alle urne per scegliere il prossimo Primo Ministro. I principali contendenti sono il premier uscente, il laburista Kevin Rudd, e il leader dell’opposizione e del Liberal Party, Tony Abbott. Tutti i sondaggi danno per molto probabile il cambio al vertice a Canberra: la Coalizione dei conservatori guidata dai liberali è data al 53-54%, con un margine di 7-8 punti percentuali sul Labor. Ciò significherebbe, stando alle proiezioni, aggiudicarsi circa 90 dei 150 seggi della House of Representatives: un’ampia maggioranza. Sui laburisti pesa sicuramente come un macigno la guerra fratricida interna al partito: Rudd è ridiventato premier nel giugno di quest’anno, dopo che una resa dei conti in seno al Labor ha di fatto sfiduciato l’allora Primo Ministro Julia Gillard. La quale, a sua volta, divenne leader del partito e premier nel 2010, allorquando il Labor riservò medesimo trattamento a Rudd.

Gli elettori hanno dato segno di non apprezzare affatto questa faida tra i laburisti, che ha portato per la seconda volta in pochi anni alla premiership un leader non passando per la via maestra delle elezioni (cosa che, nel mondo anglosassone, è poco apprezzata). Nemmeno alcune gaffe dell’ultimo minuto, come una discussa intervista rilasciata da Abbott all’Australian Broadcasting Corporation il 2 settembre e finita sotto il fuoco di fila delle critiche a causa di alcune osservazioni piuttosto superficiali in politica estera (Abbott ha descritto la guerra civile in Siria come un conflitto di “baddies versus baddies”, cattivi contro cattivi, offrendo il fianco a Rudd che ha avuto gioco facile a invitare gli australiani a non votare per chi non pare essere in grado di giudicare su questioni complesse quali guerra e pace o la sicurezza nazionale), sembrano poter influenzare il risultato del voto. Quindi, a meno di clamorosi colpi di scena, Canberra si appresta ad avere un nuovo Primo Ministro e una nuova maggioranza.

Quali effetti avrà questo cambio al vertice sulla politica estera australiana? Prevedibilmente, non molti, dato che in materia di Foreign Policy si registra una sostanziale convergenza di fondo (anche se, naturalmente, con alcuni distinguo) tra liberali e laburisti. Prova ne sia che gli argomenti chiave sui quali i contendenti si sono affrontati in campagna elettorale sono stati di tipo economico (lo scontro è stato forte sul contenimento della spesa pubblica, sulla carbon tax e sulla tassa di estrazione mineraria. Abbott ha addirittura definito le elezioni come un referendum sulla carbon tax, che i conservatori vogliono abolire), sociale (tema  molto dibattuto è stato quello del salario garantito per le donne in congedo di maternità) o hanno riguardato una issue molto sentita com’è quella dell’immigrazione clandestina e dei richiedenti asilo. Anche su questo tema, peraltro, vanno sottolineate posizioni non troppo dissimili. Se i liberali hanno assicurato di fermare le imbarcazioni di disperati che arrivano dall’Indonesia, utilizzando se necessario anche la Marina Militare per impedire l’ingresso dei barconi nelle acque territoriali australiane, i laburisti hanno comunque promesso un’inversione di tendenza. Durante il suo primo mandato da premier dal 2007 al 2010 Rudd aveva incrementato le quote di immigrazione consentite, in particolare dai paesi asiatici; in campagna elettorale ha invece annunciato che i clandestini in arrivo via nave saranno inviati nei centri di prima accoglienza appositamente allestiti nelle vicine nazioni insulari del Pacifico (in primis Papua Nuova Guinea e Nauru), con nessuna chance di entrare in Australia. Una mossa che, evidentemente dettata dalla necessità di attrarre il voto degli elettori sensibili a questo tema, ha d’altra parte insoddisfatto numerosi gruppi e organizzazioni che tutelano i diritti umani dei richiedenti asilo.

Kevin Rudd è, sul piano personale, senz’altro più ferrato e ha maggiore esperienza di Tony Abbott in materia di politica estera. Parla fluentemente il mandarino e abbraccia, come tutto il Labor, una visione multilaterale delle relazioni internazionali. Uno dei recenti maggiori successi dell’Australia in politica estera è stato l’essersi garantita un seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Mossa, però, non supportata né particolarmente apprezzata dai liberali. Tanto che Abbott ha fatto sapere che, se eletto, potrebbe anche non partecipare alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite a fine settembre, qualora esigenze di politica interna lo richiedessero. E in effetti il focus dei conservatori pare essere molto pragmatico e votato a una maggiore corrispondenza tra relazioni bilaterali e accordi di libero scambio. Julie Bishop, probabile Ministro degli Esteri in un eventuale gabinetto a guida liberale, ha dichiarato che per la coalizione conservatrice "foreign policy will be trade policy; trade policy will be foreign policy". Abbott ha affermato che, in caso di vittoria, il suo primo viaggio all’estero sarà in Indonesia, da lui definita, in virtù delle sue dimensioni, della vicinanza geografica e del suo potenziale in via di sviluppo, come “nel complesso il paese più importante per l’Australia” (dal punto di vista geopolitico, l’Indonesia costituisce infatti una barriera difensiva naturale per l’Australia sia nella dimensione marittima, che in quella aerea. Non a caso, il Trattato di Lombok del 2006 sancisce una forte collaborazione tra i due paesi per quanto concerne difesa, intelligence e antiterrorismo. Potrebbe semmai stupire lo scarso ruolo dell’Indonesia quale partner commerciale australiano: è solo al tredicesimo posto nell’apposita classifica). Successivamente, Abbott vorrebbe recarsi in Cina, Giappone e Corea del Sud e soltanto in seguito a Washington o Londra.

Ma al di là delle ovvie schermaglie da campagna elettorale, le posizioni delle due coalizioni sono, in politica estera, piuttosto vicine. E d’altra parte alcuni fatti sono evidenti di per se stessi: chiunque vinca le elezioni, si troverà a dover gestire la politica estera e di sicurezza dell’Australia in un ambiente geopolitico ed economico che gli sviluppi recenti hanno reso più complesso e difficoltoso rispetto al passato. L’apparentemente inarrestabile ascesa, non solo economica, della Cina ha fatto sì che già dal 2009 il gigante asiatico sia il primo partner commerciale dell’Australia, con scambi che superano abbondantemente i 100 miliardi di dollari l’anno. Grazie al ruolo di principale fornitore di materie prime quali minerali ferrosi, carbone, petrolio e lana grezza, l’Australia ha tratto grande giovamento dallo sviluppo industriale di Cina e India. E ciò le ha consentito di assurgere allo status di attore primario nella regione del Pacifico. E che l’Australia guardi con sempre maggiore interesse all’Asia come al proprio ambiente geopolitico di riferimento è espressamente testimoniato dal Libro Bianco, pubblicato nell’ottobre del 2012 e finalizzato a porre le basi della crescita socio-economica del paese sino al 2025. In tale documento è stata apertamente manifestata la volontà di investire nei legami commerciali, culturali e diplomatici con tutti i partner asiatici dell’Australia, nella prospettiva di permettere al paese di sfruttare appieno le possibilità offerte dal “secolo asiatico”. E come dar torto agli australiani, considerando che l’Asia è di gran lunga il continente col quale il paese dei canguri ha il più importante interscambio commerciale? Il totale di esportazioni e importazioni da e per l’Australia vede infatti il continente asiatico nella sua globalità primeggiare, nel 2012, con la cifra di 393 miliardi di dollari, +7,5% rispetto al 2008 (per fare un confronto, quattro volte tanto rispetto all’Europa, che si attesta a 96 miliardi). Di questi quasi 400 miliardi di dollari, 130 riguardano gli scambi con la Cina, 74 con il Giappone, 33 con la Corea del Sud e 27 con Singapore, rispettivamente primo, secondo, quarto e quinto partner commerciale dell’Australia. Gli USA sono il secondo partner, con 58 miliardi di dollari di interscambio; dunque, a enorme distanza dalla Cina. 

L’apertura alla Cina, fortemente caldeggiata da Rudd già quand’era Ministro degli Esteri prima di diventare premier, si è concretizzata anche sul piano diplomatico attraverso l’uscita australiana, nel 2007, dalla cosiddetta Iniziativa Quadrilaterale. Condivisa con Giappone, India e USA, essa puntava a riorganizzare il sistema di alleanze tra potenze nell’area Asia-Pacifico, in funzione (neanche troppo implicitamente) di contenimento della potenza cinese.

Chiunque vinca le elezioni del 7 settembre, per l’Australia si apre (o meglio, si è già aperta nei fatti) una stagione molto impegnativa. Da un lato, la Cina è ormai di gran lunga il principale partner commerciale del paese, e promette di esserlo per molti anni ancora. Dall’altro, si tratta di uno dei principali competitors del proprio più grande alleato strategico, gli Stati Uniti. Che di certo non ignorano le implicazioni geopolitiche della vicinanza sino-australiana. Secondo Michael Fullilove del Lowy Institute, una think-tank indipendente con sede a Sydney, questa situazione porta con sé enormi sfide (“This will pose immense challenges in the future”) per la classe dirigente di Canberra. Sia tra i laburisti che tra le fila del partito liberale non manca la fiducia: molti sono convinti che per l’Australia sia possibile bilanciare la tradizionale relazione strategica e militare con gli USA con la necessità di non rinunciare al traino della Cina e allo sviluppo economico a questo connesso. Va rimarcato, infatti, come l’Australia sia stato l’unico paese occidentale a non risentire della crisi economica internazionale; anzi, la sua crescita prosegue costantemente. Secondo alcuni analisti, invece, l’Australia si trova a un bivio. Gabriele Abbondanza, esperto italo-australiano di geopolitica e autore di ““La geopolitica dell’Australia nel nuovo millennio” sostiene in un recente articolo su notiziegeopolitiche.net che l’alternativa è tra “la possibilità di dare una svolta ai rapporti con gli Stati Uniti, con uno sforzo per continuare ad essere l’interlocutore principale di USA e Nazioni Unite nel sud-est asiatico” e “la possibilità di completare lo spostamento dell’asse economico […] verso l’Asia, unendo un progetto di avvicinamento politico che potrebbe portare […] alla costituzione di una grande area di paesi con trattati di libero scambio e rapporti politici privilegiati”. Dunque, sembrerebbe non esistere una terza alternativa alle due sfere d’influenza: “Quello che […] è certo, è che l’Australia è vicina al momento in cui dovrà decidere da che parte sta il suo futuro”.

Vi è comunque un punto fermo da non sottovalutare. L’Australia, nonostante l’avvicinamento alla Cina e l’uscita dall’Iniziativa Quadrilaterale, non ha comunque raffreddato i suoi rapporti con gli USA. Dai quali, dopotutto, né i laburisti né tantomeno i conservatori hanno alcun interesse eccessivo a distanziarsi, data la natura del legame tra i due paesi. Strategicamente e in materia di difesa e sicurezza, l’Australia dipende in maniera sostanziale dagli Stati Uniti, suoi principali fornitori di armamenti e assistenza militare. A partire dal 2000, gli USA hanno fornito oltre il 53% del totale degli armamenti acquistati dagli “aussie”; nell’anno 2012, la percentuale è stata addirittura del 71% (dati SIPRI). Inoltre, gli americani sono fisicamente presenti sul territorio australiano tramite un contingente di marines a Darwin, nel Northern Territory. Contingente che incrementerà dagli attuali 250 soldati per arrivare a 1.000 unità entro il 2014, e a 2.200 uomini a pieno regime nel prossimo futuro. E, soprattutto, non può essere dimenticato che il rafforzamento della partnership con gli USA si colloca in maniera perfettamente coerente all’interno delle nuove linee strategiche volte all’intensificazione della presenza americana nell’area del Pacifico (il famoso “Pivot to Asia” di Obama del 2012).

L’Australia ha previsto un importante sviluppo della propria forza bellica nei prossimi anni, sia orientato in senso difensivo, sia finalizzato a incrementare le proprie capacità di condurre operazioni lontano dalla madrepatria. Il Libro Bianco per la difesa del 2009 “Defending Australia in the Asia Pacific Century: Force 2030” prevede investimenti fino al 2030 per l’acquisto, tra gli altri, di aerei da guerra e missili a lunga gittata, la formazione di forze speciali, il miglioramento quantitativo e qualitativo dell’equipaggiamento. Le spese militari per la Marina, l’Esercito, l’Aeronautica e l’intelligence aumenteranno di più di 5,4 miliardi di dollari solo tra quest’anno e il 2016. Il governo di Canberra ha stimato che, per finanziare un programma così ambizioso, spenderà il 3% del PIL fino al 2017, per poi attestarsi al 2,2% fino al 2030. Questo rafforzamento della potenza militare australiana va letto in chiave strategica: le tensioni tra le maggiori potenze dell’area potrebbero radicalizzarsi in un futuro non troppo lontano e non si può escludere il rischio di un confronto diretto (il riferimento è prioritariamente, ma non esclusivamente, alla crescita della potenza militare cinese). L’interesse basilare di Canberra coincide ovviamente con la stabilità e la sicurezza dell’intera regione limitrofa: Papua Nuova Guinea, Timor Est, Vanuatu, ma soprattutto l’Indonesia. In caso di conflitti interni o dell’avvento di un regime autoritario in questo paese, infatti, la minaccia per l’Australia aumenterebbe esponenzialmente.

Il combinato disposto delle cifre di cui sopra ci fa capire come, in realtà, la vicinanza tra Australia e USA sia decisamente palese. Pochi indicatori testimoniano dell’alleanza tra stati come la collaborazione in materia di difesa e sicurezza. Un così massiccio rafforzamento bellico non può prescindere da una fattiva cooperazione e assistenza da parte degli Stati Uniti. L’interesse dei due paesi nell’area Asia-Pacifico è d’altra parte, pur con qualche differenza, sostanzialmente il medesimo: un’area stabile e pacifica; un rapporto con la Cina basato sì sulla crescita dell’interscambio commerciale (quello tra Washington e Pechino attualmente si aggira sui 400 miliardi di dollari l’anno), ma anche sulla necessità che l’ascesa militare cinese non assuma dimensioni incontrollabili. In questo senso, un aspetto cruciale della strategia americana consiste nel consolidare la sua rete di alleanze nella regione. Quella con l’Australia, da sempre considerata centrale, è stata rafforzata con gli accordi di Perth del 2012, che hanno stabilito la riallocazione di un sistema radar americano C-Band da un struttura della Air Force ad Antigua all’Australia occidentale. Inoltre, le due parti stanno portando avanti colloqui per l’installazione di droni a lungo raggio sulle isole Cocos, un territorio australiano nell’Oceano Indiano.

Per concludere: se davvero l’Australia deve decidere da che parte sta il suo futuro parrebbe che, tutto sommato, un orientamento di fondo sia già piuttosto chiaro. Al netto di Libri Bianchi e slogan elettorali, basta forse dare un’occhiata attenta alla bandiera australiana per capire come le radici anglosassoni e un certo background culturale e valoriale, nonostante i mutanti e variabili scenari economici, politici, demografici, strategici e militari, possono difficilmente venire estirpati. Siamo ormai pienamente entrati nel “secolo asiatico”: aspettiamoci ancora per molti anni un’Australia vivace, aperta, florida e dinamica; sicuramente pronta a cogliere tutte le occasioni di crescita che derivano dalla relativa prossimità a paesi in notevole sviluppo economico, dalle smisurate ricchezze naturali del proprio sottosuolo e dal suo ruolo sempre più rilevante nell’area Asia-Pacifico. Al tempo stesso, però, aspettiamoci anche un’Australia, dal punto di vista strategico e militare, saldamente ancorata all’Occidente.


Fonti:

http://www.theguardian.com/world/australia-election-2013-interactive
http://www.todayonline.com/world/austrailian-contender-tony-abbott-sparks-foreign-policy-furor
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23898663
“Defining Down Under”, Time Magazine del 19/08/2013, pp.18-23
http://www.todayonline.com/world/abbott-vows-asia-first-policy-if-elected-pm#inside
http://www.bbc.co.uk/news/world-asia-23840061
http://www.treccani.it/enciclopedia/australia_res-25c6fc01-a825-11e2-9d1b-00271042e8d9_(Atlante_Geopolitico)/
http://www.notiziegeopolitiche.net/?p=26849
http://asiancentury.dpmc.gov.au/
http://www.sipri.org/research/armaments/transfers/databases/armstransfers
http://breakingdefense.com/2013/07/11/us-marine-force-in-darwin-australia-boosts-to-1000-next-year-boost-to-meu-force-proceeds/
http://www.news.com.au/money/federal-budget/budget-2013-defence-spending-up-as-military-grows/story-fn84fgcm-1226642483169
http://www.geopolitica-rivista.org/21540/il-focus-usa-dallatlantico-allasia-pacifico-la-cina-nel-mirino/

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