La reazione di Erdogan al buffo
tentativo di Colpo di Stato del 15 luglio scorso si è abbattuta come un tornado
sugli apparati statali da lui considerati poco “fedeli”. Il contro-Golpe è
andato a colpire ben oltre quella parte di esercito che ha materialmente
tentato la sorte, ma si è ampliato ad altre istituzioni che il nuovo Sultano ha
intenzione di “ripulire”: la Magistratura, parti della Polizia, il mondo della
scuola e delle università. I media parlano di oltre 50.000 persone coinvolte in
questa vera e propria epurazione. C’è, però, un’altra vittima importante di
questo pugno di ferro, ovvero quella laicità delle istituzioni che nei paesi
islamici appare sempre più un’utopia irraggiungibile. Anche la Turchia,
considerata per decenni il paese mediorientale più moderno e laico, sta subendo
una deriva ormai inarrestabile verso l’islamizzazione dello Stato.
Ed è proprio da qui, ovvero dall’incapacità
delle società islamiche di affrancarsi dal precetto religioso nella gestione
della cosa pubblica, che iniziano le inevitabili frizioni e difficoltà di
dialogo con le culture occidentali. Il vero, autentico, punto focale per lo
sviluppo dei nostri regimi democratici è stata l’espulsione della religione
dalle istituzioni che guidano lo Stato che l’ha traslata, e garantita, al rango
di pieno diritto della sfera privata di ogni singolo cittadino ma non come
guida dell’intera società. Il processo di costruzione sociale della democrazia
è stato lungo e tortuoso: è passato attraverso le guerre di religione, la
nascita non certo incruenta degli Stati Nazione, la Rivoluzione francese,
l’Illuminismo, la Restaurazione, gli orrori del Novecento. Ma è proprio grazie
a questo percorso che le società occidentali hanno costruito al proprio interno
le basi per lo sviluppo di solide istituzioni democratiche. La Democrazia non
può essere imposta dall’alto, o peggio ancora “esportata”: se la società non è
pronta, la Democrazia è destinata al fallimento. Ed è questa, ormai, la
situazione certificata dei paesi islamici. L’illusione delle primavere arabe,
appoggiate in diversi casi dalle armi occidentali, ha restituito uno scenario
desolante. Nei paesi in cui si sono svolte elezioni più o meno regolari la
vittoria è andata puntualmente a partiti islamici o islamisti che hanno tentato
da subito l’introduzione dei precetti religiosi nelle relative Costituzioni.
Negli Stati falliti (come Irak, Siria, Libia) lo Stato Islamico ha preso il
potere in maniera cruenta all’interno di guerre tribali o nell’infinita lotta
intestina tra sunniti e sciiti. L’Islam, di fatto, è stato per le società arabe
un fattore di immobilità sociale devastante e per il momento non sembra
possibile vedere all’orizzonte strade alternative e modernizzanti.
E qui si torna al nodo principale, ovvero alla
possibilità di un dialogo reale o di una pacifica convivenza tra società
profondamente differenti. Credo che l’Europa debba continuare sul proprio
percorso di dialogo e accoglienza, ma rovesciando completamente un modello di integrazione
che sta dimostrando sempre di più il proprio fallimento. Innanzitutto dovrebbe
smettere di negare se stessa per paura di offendere qualcuno o per paura di
sentirsi accusata, in maniera del tutto strumentale, di essere razzista. I
popoli europei hanno raggiunto conquiste inarrivabili in termini di diritti
civili e di libertà e devono ricordare ogni giorno a qualsiasi ospite che quei
diritti sono la linea al di sotto della quale non è tollerabile andare.
L’Europa non può azzerarsi per paura di sembrare quello che non è: il rischio
di questo assurdo avvitamento su se stessa in nome del political correct, e la
mancanza di qualche risposta forte nella gestione delle problematiche connesse
alle follie del terrorismo di matrice islamica, è quello di lasciare campo
aperto alla nascita degli Hitler del futuro. Il terreno, purtroppo, è già
fertile e non molto diverso da quello degli anni ’30 del novecento: una
perdurante crisi economica e un potenziale nemico su cui riversare qualsiasi
colpa e contro il quale aizzare le masse.
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